Al Dialma Ruggiero di La Spezia arriva l’irriverente e provocatorio Acqua di Colonia. Per la Stagione di Fuori Luogo, Elvira Frosini e Daniele Timpano insegnano la storia richiamando il pubblico al presente.
Ingresso degli spettatori. Luci accese in scena come in platea. Frosini e Timpano attendono in proscenio, sono vestiti normalmente. Una volta che il pubblico si è sistemato, iniziano un dialogo fra loro. Un normale dialogo da bar. Due avventori discutono una questione importante, ovvero di quel senso di fastidio e insofferenza che nasce quando qualche immigrato cerca di vendere la sua merce mentre si sta mangiando. Fastidio? Noia, rabbia, stanchezza, vergogna, senso di colpa. Ma perché poi? Timpano dà un nome alla difficile questione: colonialismo. Noi abbiamo una colpa, una responsabilità che viene dal colonialismo. Colonialismo? Cosa c’entra tutto questo con noi? Oggi non siamo più colonialisti, perché continuare a rimestare in questo senso di colpa?
Veniamo, per il momento, allo spettacolo. Diviso nettamente in due parti, inizia – come scritto – con i due attori vestiti normalmente, indistinguibili da un qualsiasi spettatore. Scoperto il sottinteso senso di colpa e la presenza di questo passato oscuro su cui regna una profonda ignoranza, i due iniziano a pensare lo spettacolo. Tutta la prima parte non è che la restituzione del momento di brainstorming iniziale sul tema colonialismo, uno Zibaldino – ovvero notizie, appunti, riflessioni, estratti di letture, schemi, abbozzi – composto di elementi eterogenei (citazione da Treccani). Si ipotizza e immagina lo spettacolo da fare – e viene proposto a parole ciò che, nella seconda parte, diventerà fare scenico. Accumulo di materiale, con idee, immagini, canzoni, romanzi, riferimenti vari. Indice bibliografico, iconografico e sonoro. Fonti alte e basse, filosofia e opinioni qualunque, romanzi commerciali e letteratura blasonata, canzoni di propaganda, lirica, poesia, guide turistiche. Tutto quello che salta in mente e che parli dell’Africa, oltre che del nostro rapporto con la stessa. “La vena principale sta nell’immaginario culturale, nella sedimentazione dello sguardo autocentrico paternalistico“, affermerà Frosini durante l’incontro post-spettacolo. Una visione radicata e antica, dai barbari stranieri e servili di Aristotele a Rousseau, Hegel e Kant, e poi a Verdi, Pascoli, Marinetti, il barista sotto casa e lo zio. Tutto quello che si dice appartiene a uno sguardo che si compiace di se stesso. Non incontra e non ascolta l’altro. Dalle canzoni colonialiste a Pasolini, nessuno è fuori da questa logica: siamo prigionieri di noi stessi. Centrale, in questa riflessione, è il concetto di descrizione, come invenzione di un’identità, di caratteri, invenzione dell’altro da parte di un soggetto occidentale, che in tal modo crea e contemporaneamente domina. Immaginate è la parola chiave che si ripete quasi come un’anafora, è provocazione a immaginare ciò che non si è mai visto e non si vedrà mai, proprio come fece Salgari, che diede vita a tutto un mondo senza conoscerlo.
In questa fase di brainstorming un ospite silenzioso sta in scena, seduto su una seggiolina da scuola, sulla sinistra. I due attori lo ignorano. Si tratta di un ospite muto, senza diritto di parola, “se possibile originario di una ex colonia italiana in Africa, preferibilmente donna, preferibilmente afro-italiana di seconda generazione, o comunque qualcuno che sia in Italia da diversi anni e capisca bene l’italiano“. L’ospite non conosce lo spettacolo. Con questa soluzione scenica si ripropone una situazione verificatasi in prova e che i due artisti hanno voluto ricreare perché la presenza dell’ospite, raccontano i due, diventa un polo di tensione e imbarazzo per tutti. «In questo modo si mette in scena il rapporto sbilanciato fra di noi. All’altro da sé non si dà modo di parlare e non si ascolta. Anche in suo favore siamo noi a esprimerci, ed è tutto in funzione del nostro pensiero». Non solo, la reazione dell’ospite è visibile a tutti e la sua partecipazione mette in discussione ciò che gli attori stessi stanno affermando: “Ci legittima e delegittima. Anche perché, in fondo, siamo due cretini“.
Nella seconda parte tutto il materiale annunciato nella prima viene rappresentato, agito, impersonato. Tuttavia, ogni singolo elemento, così come era stato descritto, diventa qui particella autonoma che reagisce alle altre. Immagini di sogno che sembrano sfuggire al controllo degli stessi attori, fino a realizzare l’incùbo che affligge il povero Stanlio alla fine della comica.
L’insieme di segni, dai multipli significati, composti insieme come note e lettere in una poesia grafica, sono pronti a reagire uno con l’altro, ad aprirsi e slittare di senso, mutevoli. “La composizione di segni, dove ogni dettaglio è importante e curato, ha un andamento centrifugo“, afferma Timpano: “e presuppone un’intelligenza del pubblico“. Non solo, aggiungiamo noi. Presuppone anche la conoscenza, la capacità di ricostruire, e l’elaborazione di un eventuale messaggio.
Le molte frecce vanno (quasi) tutte a segno. Non c’è partecipazione o immedesimazione. Non c’è commozione, non c’è “struggimento per la soggettività europea”. Senza paura di fare ridere, di essere irriverenti, con continui scarti e spostamenti fra alto e basso, non solo nei riferimenti, ma anche nel testo, nel lessico e nel linguaggio. La drammaturgia è ossimorica, esaltazione della contraddizione: ogni cosa si accompagna al suo contrario – erudito e scurrile, paradiso e inferno, colto e popolare, verità e menzogna, onestà ed enfasi, realtà e prosopopea. Il testo procede secondo un suo ritmo e una sua musicalità, talvolta in una sorta di lungo monologo interiore, fluido, corrente. Una saggio di storia, che mostra però tutta l’inutilità della storia: ovvero la mancanza di preparazione in un pubblico medio (con una cultura media), la mancanza di una profondità di pensiero messa in moto dalla cultura. Fallimento della storia e della cultura in generale, come incapacità di generare cambiamento, se non nella pratica, almeno nel modo di pensare.
Notevoli alcuni passaggi: il lungo monologo sull’immaginare l’Africa di Timpano e il Pasolini di Frosini. Il momento centrale della seconda parte, al contrario, sembra traboccare per la mole di materiale: Affile, Aida, Faccetta Nera, i temi dei bambini – se, da un lato, sono testimonianza di una negazione e di un sottostante problema di ignoranza e di razzismo; dall’altro, sono un troppo pieno in cui i contenuti finiscono per strabordare.
Belle le luci, funzionali e pulite, che contribuiscono a creare l’atmosfera misteriosa dello spettacolo, un incedere da kolossal, a tratti pomposo. A un visivo che ricalca talvolta i modi della propaganda o dell’impegno intellettuale, si accompagnano una recitazione grottesca, ironica, spesso volutamente comica, e personaggi assurdi o caricati.
Il finale è curato, annunciato, atteso, non scontato. In esso si esplica il ribaltamento dell’epopea propagandistica nel suo contrario, ironicamente, in tutte le immagini negative, di violenza, di dominazione. Un finale con un un’aura epica, tronfio, retorico, ma opposto nel contenuto, aspramente polemico, comico, grottesco, sfacciatamente vero e crudele. Cosa ci lascia Acqua di Colonia? Un senso di sfiducia, un vago malessere, un po’ di rabbia sommessa, l’urgenza. Qualcosa di amaro. Dal punto vista scenico è affascinante. Si avverte la cura dei dettagli, la costruzione dei segni, una specifica poetica (anche se restano invero da esplorare le ragioni della divisione in due parti). Dal punto di vista del contenuto occorre rispondere alle questioni e alle accuse che solleva, in particolare al problema della responsabilità, e a al dubbio che quel background di ignoranza e arroganza non appartenga solo al passato. Siamo colpevoli, ottusi, compiacenti e narcisisti (per lo sguardo occidentale che costruisce e poi legge la sua Africa), perfino buonisti. Colpevoli per l’ostinazione a non voler vedere, a negare, a rifiutare la responsabilità delle colpe passate e di quelle attuali. Colpevoli di essere condiscendenti, pietosi. Colpevoli soprattutto per il silenzio in cui continuiamo a tenere l’altro. L’argomento è terribilmente complesso e se, da un lato, i due artisti riescono a ricordarci e richiamarci alla responsabilità, a sbatterci in faccia la colpa e a ricordarci il dovere; dall’altro, ci si chiede: dovere di cosa? Questo non è chiaro. Dovere di sopportare? Aiutare? Conoscere? Liberare per sempre l’Africa?
Mailè Orsi
Lo spettacolo continua:
Auditorium Dialma Ruggiero
via Monteverdi, 117 – La Spezia
venerdì 19 gennaio, ore 21.15
www.fuoriluogoteatro.itTeatro Filodrammatici
via Filodrammatici, 1 – Milano
dal 20 al 25 febbraio 2018
orari: martedì, giovedì, sabato 21.00
mercoledì, venerdì 19.30, domenica 16.00
www.teatrofilodrammatici.euAcqua di Colonia
testo, regia e interpretazione Elvira Frosini, Daniele Timpano
consulenza Igiaba Scego
voce del bambino Unicef Sandro Lombardi
aiuto regia e drammaturgia Francesca Blancato
scene e costumi Alessandra Muschella e Daniela De Blasio
disegno luci Omar Scala
progetto Grafico Valentina Pastorino
uno spettacolo di Frosini / Timpano
produzione Gli Scarti, Kataklisma Teatro, Accademia degli Artefatti, Romaeuropa Festival e Teatro della Tosse
con il sostegno di Armunia Festival Inequilibrio
si ringrazia C.R.A.F.T. Centro Ricerca Arte Formazione Teatro