Gabriele Lavia si confronta una volta ancora con Luigi Pirandello. Il risultato, complice la scelta di meticciare la versione in italiano della commedia con la sua prima stesura in siciliano, è coinvolgente e convincente.
Gabriele Lavia è in questi giorni in scena al Piccolo Teatro Strehler con Il berretto a sonagli di Luigi Pirandello, nella duplice veste di regista e protagonista maschile. Lavia, a cinque anni di distanza dal tour di L’uomo dal fiore in bocca… e non solo, delizia nuovamente Milano con un testo pirandelliano. Al pubblico ora non offre più un monologo introspettivo ma il vivace battibecco che si solleva intorno alla scelta di Beatrice di smascherare pubblicamente la relazione clandestina tra il marito, il cavalier Fiorica, e Nina, la moglie dello scrivano Ciampa. Sullo sfondo un gran numero di manichini in costume allude ai compaesani chiamati a giudicare le gesta dei due coniugi traditi qualora decidessero di rendere pubblica una situazione sino ad allora, per quanto nota a tutti in paese, ritenuta privata. Un giudizio severo che nella Sicilia di inizio Novecento prevede, per coloro che dovessero essere ritenuti colpevoli, l’emarginazione sociale e, per le parti lese, l’obbligo insindacabile di riscattare il proprio buon nome: ricordiamo che le attenuanti concesse per i delitti d’onore sono state abrogate solamente nel 1981.
Gli imponenti panneggi di un polveroso color écru, utilizzati per celare malamente il retroscena, evocano l’imponenza barocca dei palazzi siciliani che, in seguito all’annessione dell’isola al Regno d’Italia e alla progressiva industrializzazione, decadono di pari passo alle fortune delle nobili famiglie che ne sono proprietarie da generazioni. Alessandro Camera, già autore della scenografia di Il padre di August Strindberg – sempre con Federica di Martino e Gabriele Lavia nei ruoli dei protagonisti –, ricicla per Il berretto a sonagli parte degli arredi, in particolare il divano e le poltrone con le gambe di diversa altezza. L’utilizzo di tali bizzarre sedute sottolinea come, anche in questa commedia di Pirandello, la follia sia un elemento fondamentale della narrazione o, meglio, sia lo strumento con cui uno dei due protagonisti piega l’antagonista ai propri desiderata.
La follia è l’ardire con cui Beatrice – una donna! – vuole reagire all’umiliazione inflittale dal marito, incurante che, compiuto tale gesto, non avrà più stato civile ovvero non la si potrà più descrivere in base al legame con un uomo. Beatrice è l’emblema della donna moderna che, pur non aderendo ai vari movimenti di emancipazione femminile, nel suo piccolo, anela solamente ad essere libera di gestire la propria vita, libera da un matrimonio di convenienza che le causa solo dolore e umiliazione. Una libertà che alla Saracena, la rigattiera sua confidente, nella Sicilia ancora profondamente patriarcale di inizio XX secolo costa l’emarginazione sociale.
La follia è pure la dabbenaggine mostrata da Ciampa nel preferire ignorare i tradimenti della moglie all’essere costretto a punirla con la morte. Lavia nel ruolo dello scrivano è straordinario nel suscitare nel pubblico un’ampia gamma di reazioni, dalla compassione all’indignazione, che si evolvono e mutano man mano si scoprono i pensieri che ne affollano la mente. I lunghi monologhi sono gestiti con maestria dall’attore che li carica di una forte componente mimica, necessaria a far capire a Beatrice la lunga lista di sottintesi e di pensieri che, per convenzione, non è bene esplicitare. Soprattutto a una signora che gli è superiore per ceto sociale.
Convenzioni che Beatrice sceglie di non anteporre più alla propria libertà, rendendo necessario che Ciampa, con la propria saggezza – condita da opportunismo –, la inviti alla prudenza, a muoversi tenendo le mani avanti così, in caso di caduta, può salvare la faccia e a scegliere di volta in volta la corda giusta per far muovere quel pupo che ciascuno di noi è.
Deve sapere che abbiamo tutti come tre corde d’orologio in testa. La seria, la civile, la pazza. Soprattutto, dovendo vivere in società, ci serve la civile; per cui sta qua, in mezzo alla fronte. ‑ Ci mangeremmo tutti, signora mia, l’un l’altro, come tanti cani arrabbiati. ‑ Non si può. ‑ Io mi mangerei ‑ per modo d’esempio ‑ il signor Fifì. ‑ Non si può. E che faccio allora? Do una giratina così alla corda civile e gli vado innanzi con cera sorridente, la mano protesa: ‑ “Oh, quanto m’è grato vedervi, caro il mio signor Fifì!”. Capisce, signora? Ma può venire il momento che le acque s’intorbidano. E allora… allora io cerco, prima, di girare qua la corda seria, per chiarire, rimettere le cose a posto, dare le mie ragioni, dire quattro e quattr’otto, senza tante storie, quello che devo. Che se poi non mi riesce in nessun modo, sferro, signora, la corda pazza, perdo la vista degli occhi e non so più quello che faccio!
Il segreto per passare per pazzo è semplice e Beatrice lo apprende a proprie spese: è sufficiente dire la verità. La verità è così incredibile che nessuno, per quanto possa risultare ovvia analizzando con occhio critico i fatti, è disposto a ritenerla verosimile o, peggio, tollerabile. Meglio fingersi stupidi e non affrontare l’evidenza.
Il berretto a sonagli del titolo è un chiaro riferimento al copricapo dei buffoni di corte, le uniche persone cui in passato fosse concesso – pur sempre con moderazione – dire la verità al sovrano. “La verità vi rende liberi” dice Gesù nel Vangelo di Giovanni (8, 32) ma è davvero così? Non è piuttosto un falso mito o, peggio, un’ipocrisia come quel “Arbeit macht frei” – il lavoro rende liberi – che troneggia sul cancello di ingresso ad Auschwitz?
La derisione e l’emarginazione – la morte sociale di una persona – sono l’ineluttabile conseguenza di questo anelito di libertà. Una problematica che, per l’aderenza con la nostra contemporaneità, dimostra la grande attualità del testo di Pirandello, non tanto perchè l’autore sia un visionario quanto per la perdurante arretratezza in cui ancora oggi annaspiamo.
Lo scrittore Premio Nobel racconta la tragicommedia della vita e Gabriele Lavia ne offre una convincente messa in scena, scegliendo con cura gli attori chiamati a cimentarsi con un’opera dove la parte comica risiede più nell’interpretazione che nel testo. Lavia, a partire dalle laconiche indicazioni di Pirandello a margine dei dialoghi, è magistrale nel costruire certosinamente una situazione di crescente comicità, giocando molto sui tempi e sulla gestualità dei personaggi in scena, impegnati più a lasciar intendere che a dichiarare esplicitamente, ad alzare le braccia al cielo e bofonchiare una mezza imprecazione invece di permettersi di contraddire a ragion veduta la padrona.
Parole che, dette a mezza bocca in siciliano, si caricano di ulteriore vis comica, una componente fortemente voluta da Lavia che ha fuso le due versioni di Il berretto a sonagli elaborate da Luigi Pirandello: la prima scritta in siciliano nel 1916 per il celebre attore Angelo Musco e la sua traduzione in italiano terminata due anni dopo.
L’equilibrio raggiunto tra il calore del siciliano e la formalità dell’italiano è encomiabile e consente al pubblico di tutta Italia di non perdere nemmeno una battuta di questa strepitosa versione de Il berretto a sonagli. Andare a teatro per credere.
Silvana Costa
Lo spettacolo continua:
Piccolo Teatro Strehler
Largo Greppi – Milano
fino a domenica 13 marzo 2022
orari: martedì, giovedì e sabato 19.30;
mercoledì e venerdì 20.30; domenica 16.00
lunedì riposo
con obbligo di Green Pass Rafforzato
www.piccoloteatro.org
Il berretto a sonagli
di Luigi Pirandello
regia di Gabriele Lavia
con Gabriele Lavia e Federica di Martino
e Francesco Bonomo, Matilde Piana, Maribella Piana, Mario Pietramala, Giovanna Guida, Beatrice Ceccherini
scene Alessandro Camera
costumi ideati dagli allievi del terzo anno dell’Accademia Costume & Moda
Matilde Annis, Carlotta Bufalini, Flavia Garbini, Ludovica Ottaviani, Valentina Poli, Stefano Ritrovato, Nora Sala
coordinatore Andrea Viotti
musiche Antonio Di Pofi
luci Giuseppe Filipponio
produzione Effimera SRL in coproduzione con Diana Or.i.s.
durata: 2 ore e 15 minuti con un intervallo