Intervista a Bruce Myers

13 settembre. Ci troviamo a Quiesa, un piccolo paese dell’entroterra lucchese, che sorge tra il Parco di San Rossore e l’Oasi naturale di Massaciuccoli, dove si trova La Brilla – un ex brillatoio per il riso, oggi restaurato e che, dal prossimo autunno, diventerà uno spazio multidisciplinare dove fare e respirare cultura. Proprio nel piccolo cortile antistante l’edificio, incontriamo Bruce Myers, che sta tenendo una master class su Le Serve di Jean Genet, nell’ambito del progetto didattico promosso dal Centro di Creazione Internazionale Policardia Teatro.Uomo schivo, di una gentilezza squisita, dotato di uno spiccato sense of humour e di quell’autoironia che gli fa esclamare: «Fossi davvero uno Stradivari, mi venderei a 5 milioni di dollari e vivrei ricco e felice!», Myers ci racconta la sua esperienza decennale con Peter Brook e il suo metodo per entrare in un ruolo – che coincide peculiarmente con quello del miglior attore cinematografico italiano, Gian Maria Volonté: l’accurata lettura del testo.

Maestro, lei è stato membro della Royal Shakespeare Company, ma da alcuni decenni collabora attivamente con Peter Brook. Non è stato difficile, all’inizio, adattarsi a tecniche produttive e di recitazione tanto diverse?
Bruce Myers: «In realtà no. Con Peter Brook mi sono trovato subito a mio agio, direi anzi meglio che con la Royal Shakespeare Company, perché sebbene quest’ultima firmi tuttora alcune produzioni pregevoli, il suo genere teatrale è di stampo conservatore ed è un ambiente dove, per esprimersi al meglio come attori, era necessario essere inglesi. Ho visto molti colleghi, bravi e di talento, ma con l’accento americano, non avere successo. Penso però che le cose, in questi ultimi anni, stiano cambiando».

Lei è stato descritto come uno “Stradivari umano”. Il ritmo, la musicalità tipica della lingua britannica è davvero tanto importante nelle sue performance e perché?
B. M.: «So che la mia voce è abbastanza buona ma ricordo bene che quel complimento, che mi fu rivolto sul New York Times, era uno scherzo. Al tempo stavo recitando Il grande Inquisitore, tratto da I Fratelli Karamazov di Dostoevskij e, naturalmente, la performance vocale – vista la difficoltà del testo, la complessità del suo autore e del personaggio – era determinante per la buona riuscita dello spettacolo. Però, di fronte a un simile complimento non posso che ammettere che se fossi davvero uno Stradivari, mi venderei a 5 milioni di dollari e vivrei ricco e felice!».

Come si avvicina ai ruoli che le propongono e quali tecniche utilizza per costruire i personaggi?
B. M.: «Naturalmente dipende dal ruolo che mi si propone. Nel caso in cui il testo sia basilare, come per Il grande Inquisitore, costruisco il mio ruolo partendo da un’attenta e approfondita lettura del testo. È ciò che l’autore scrive a costituire la materia prima del personaggio. Al contrario, in altri casi, ad esempio in alcune regie di Peter Brook, sono partito dal corpo. In The Ik (dal libro The Iks di Colin Turnball, n.d.g.), ricordo di avere impersonato un indigeno che, sradicato dal potere colonialista britannico dalla propria terra e rinchiuso in un parco nazionale, non riuscendo più a procurarsi il cibo secondo i metodi tradizionali e perdendo la propria identità, finisce per morire di fame insieme agli altri membri della propria tribù. Per comprendere il mio personaggio, in questo caso, sono andato sul posto, naturalmente insieme a Peter Brook e agli altri membri della Compagnia, e ho costruito il ruolo osservando il modo di camminare e di muoversi, oltre che ascoltando con attenzione i suoni emessi dagli abitanti delle tribù locali».

Lei conosce l’Italia piuttosto bene, insegnandovi anche in master class. Come valuta il nostro teatro e il parco attorale?
B. M.: «Non credo si possa dire che esista un teatro italiano ma i giovani attori con i quali ho lavorato sono dotati di un talento meraviglioso».

Può spiegarci quali sono i suoi metodi di lavoro quando insegna recitazione?
B. M.: «Molte delle tecniche che utilizzo derivano da quelle adottate da Peter Brook. Si parte dal training, che prevede esercizi di Tai Chi, oltre all’uso delle arti marziali giapponesi. Un approccio, quindi, molto fisico nel senso di un recupero della consapevolezza del proprio corpo».

Simona M. Frigerio