Abbiamo incontrato il cantante milanese alla vigilia del lancio del suo nuovo cd, C’era una svolta, e del debutto allo Spazio Tertulliano dello spettacolo che ne ha tratto.
Raggiungiamo Martino Corti una mattina di inizio autunno per parlare del secondo volume dei suoi Monologhi pop. In C’era una svolta canta nuovamente, tra il poetico e l’ironico, le bizzarre scene in cui tutti noi ci imbattiamo quotidianamente ma, mentre la maggior parte delle persone passa oltre indifferente, lui, curioso di questa varia umanità, prende appunti e ne trae canzoni. Non a caso uno dei suoi motti preferiti è: “la curiosità è una delle armi più efficaci che abbiamo a disposizione”. Poiché anche noi siamo più curiosi di un gatto, ci siamo fatti condurre a spasso per il quartiere dove è nato – e tutt’ora abita – cercando di scorgere in questo microcosmo i personaggi di cui abbiamo sentito cantare e, nel mentre, ne approfittiamo per farci un po’ i fatti suoi.
Partiamo dall’inizio, dai suoi esordi nel mondo della musica. Ci sono cantanti che parlano di lunga gavetta e porte sbattute in faccia e chi emerge grazie alla vittoria in un talent show. Lei, al contrario, con la solita lievità, sul suo sito riassume l’incontro di una vita in una frase scherzosa: «Durante gli studi universitari mi imbatto in Mara Maionchi e Alberto Salerno. (Utile!)». Ci racconta come è andata?
Martino Corti: «Molto banalmente: una decina di anni fa mi sono fidanzato con Camilla e, quando lei mi ha fatto conoscere i genitori, io, inizialmente, nemmeno sapevo chi fossero. Ovviamente decidere di iniziare a lavorare insieme ai genitori della fidanzata è stata una scelta dibattuta, per tutti i motivi che potrete ben immaginare. Grazie a loro sono cresciuto molto, musicalmente parlando; sono grato soprattutto ad Alberto che mi ha letteralmente insegnato a scrivere i testi e tutt’ora continuo a imparare da lui. Dopo tanto lavoro, nel 2010 è nato Stare qui, il mio primo disco, e subito dopo mi è stata offerta l’opportunità di accompagnare in tour i Nomadi, aprendo i loro concerti. Anche ora che Camilla e io abbiamo deciso di staccarci e iniziare questo nostro percorso (con Cimice Records, un’etichetta indipendente fondata da Camilla Salerno n.d.r.), Mara e Alberto continuano a consigliarci».
Stare qui (2010) ha uno stile decisamente pop, mentre il cd successivo, Le cose non contano nulla (2012), è un album indubbiamente particolare in cui alle canzoni, eseguite con l’accompagnamento di una chitarra o poco più, sono accostati dei monologhi. Da dove è scaturito un tale cambio di direzione?
M. C.: «Nel primo album ero solo cantante. È un disco che a me piace molto, però non ci ritrovo tutto me stesso e questo lo aveva capito molto bene Sandro Mussida, che è stato la colonna portante di quel lavoro. Quando abbiamo iniziato il nostro percorso mi sono sentito finalmente libero di esprimermi come avrei sempre voluto: tutti i testi sono scritti da me e ho composto anche alcune musiche. In quel momento ha iniziato a delinearsi meglio il mio mondo artistico. Poi sono nati i monologhi e inserire in questo processo creativo anche il teatro mi ha aiutato tanto. I Monologhi pop, d’altro canto, sono legati al palcoscenico sino a un certo punto: è ovvio che per uno spettacolo di questo tipo serva un posto dove l’attenzione del pubblico sia massima ma ciò non toglie che si adattino anche a contesti più musicali. Se facessi un concerto più convenzionale mi divertirei comunque a discorrere con il pubblico tra una canzone e l’altra».
Scrivere un monologo rispetto al testo di una canzone è diverso o si seguono processi creativi analoghi?
M. C.: «C’è affinità perché in entrambi i casi parto da ciò che osservo tutti i giorni. Per me, venire a bere il caffè al bar e fermarmi a scambiare due parole con il tappezziere è interessante perché non so mai quali spunti quella conversazione mi possa offrire. Questo vale sia per le canzoni che per i monologhi. Sostanzialmente io passo un periodo della mia vita a buttar giù idee, le cose che sento e quelle che vedo; al primo ne segue un altro, di uno o due mesi, in cui raccolgo i miei scritti e capisco quali passaggi utilizzare per creare una canzone. Per C’era una svolta, il nuovo disco, abbiamo invertito la sequenza del processo creativo. Mentre per i precedenti album nascevano prima le musiche e poi i testi nell’ultimo prima ho scritto i testi e, poi, Luca Nobis, il chitarrista che vedrete con me sul palco, li ha musicati.»
Ogni disco una svolta.
M. C.: «Assolutamente sì. Mi piace fare ricerca, rinnovarmi. Io amo gli artisti che ogni volta si rimettono in gioco, senza adagiarsi su quello che è piaciuto al pubblico. Uno dei miei preferiti, Jovanotti, ne è un esempio perfetto: finisce un disco e poi ne inizia a scrivere uno completamente diverso che non solo entusiasma il pubblico che lo segue da una vita ma riesce ad attrarre anche tanti nuovi fan. Nel mio piccolo mi è piaciuto mettermi in gioco, unendo elettronica e acustica grazie alla collaborazione di Dj Kustrell che vedrete con noi sul palco, proponendo qualcosa apparentemente lontano da quanto fatto sinora ma che, in realtà, gli è vicinissimo. Mi ritrovo pienamente in questo nuovo lavoro e sul palco ci divertiamo molto».
Ascoltando il cd si sente la componente elettronica che, però, resta un delicato sottofondo. A predominare è la sua voce e questo fa sì che il testo sia immediato e colpisca anche al primo ascolto.
M. C.: «Ci piace il fatto di aver reso i pezzi fruibili al primo ascolto, compresi quelli più andanti o più radiofonici, pur mantenendo intatte le caratteristiche del mio fare artistico. Soffro più del mio cane (e allora ballo), il pezzo scelto come primo singolo, ha un video provocatorio realizzato unendo spezzoni divertenti tratti dai video che hanno ottenuto più visualizzazioni su Youtube. Però è un brano che solo apparentemente fa ridere, in realtà vuole comunicare pensieri ben più profondi. I miei testi sono così: hanno diversi livelli d’ascolto. Si presentano con leggerezza ma, se uno vuole, può andare oltre».
In Un motivetto canta: «Servirebbe qualcosa per non sentire, non parlo di profondo ma di parole vuote che questo continua a ribadire, così una canzonetta, un motivetto, da canticchiare in testa mentre si sorride all’insulso cospetto. Vorrei diventasse un Inno alla gioia, ma leggero, facile come dire nazionalpopolare». Possiamo considerarlo il manifesto di intenti di C’era una svolta?
M. C.: «Quella canzone è nata perché, a volte, mi capita di stare ad ascoltare persone chiedendomi: “Chi me lo fa fare?”. Mi è venuta così l’idea di scrivere questa canzone e poi l’ho messa in relazione con tutto ciò che ci raccontano e ci vogliono far credere. L’abbiamo messo all’inizio dell’album perchè è un pezzo di rottura tra il vecchio e il nuovo corso: l’incipit è costituito da chitarra e voce, con un mood molto legato al primo disco e poi, nell’inciso, esplode l’elettronica che prelude al nuovo percorso».
Viene dal Dams e si esibisce in monologhi: qual è il suo rapporto con il teatro?
M. C.: «Il teatro mi è sempre piaciuto ma non l’ho mai frequentato molto. Preferisco di più farlo: ho seguito un corso a 16 anni, ho frequentato il Dams e partecipato a laboratori di recitazione. Però non mi definirei un attore, sostanzialmente sono un cantante, dopodiché ho questa passione che trasferisco nei miei lavori. Ma devo stare attento perché può diventare un’arma a doppio taglio: quando nomini il teatro la maggior parte dei giovani dice: “Che noia!”. Questo, purtroppo, capita anche con il teatro-canzone perché la gente non ne può più di sentire usare vecchie definizioni. Da lì la scelta di coniare il termine “monologhi pop” per far intendere che a teatro si può assistere anche a cose diverse. Concludo dicendo che tutti dovrebbero seguire almeno un corso teatrale, anche se non si ha l’intenzione di recitare perché aiuta a relazionarsi meglio con gli altri».
Afferma: “Studio chitarra ma non sono un chitarrista, suono il piano ma non sono un pianista, scrivo i testi delle mie canzoni e dei miei monologhi, oltre a racconti e poesie, ma non sono uno scrittore”. Ci fa venire in mente la figura di Herbert List, il celebre fotografo tedesco ora in mostra alla Fondazione Stelline (leggi la recensione) che, seppur esperto di tutti gli stili e le tecniche, ci teneva al suo essere non professionista, al fare foto per diletto e non per imposizione del cliente. Anche per lei questo non essere è pretesto per slegarsi da etichette e committenti, per essere più libero?
M. C.: «Sentirmi libero è più che altro una conseguenza. Io non uso certi termini perché ho talmente tanto rispetto per chi ha studiato anni per diventare musicista, chitarrista, attore che non mi sento all’altezza di definirmi tale. Rispetto che mi dà, d’altro canto, la libertà di prendere la chitarra e suonare, anche su un palco».
Nel 2010 è stato in tour con i Nomadi. Cosa le è rimasto di quell’esperienza?
M. C.: «Sia artisticamente che umanamente è stata un bellissima esperienza. A mente fredda la cosa più importante che ho imparato è che avere costanza e credere in quello che si fa permette di avere un pubblico che ci segue con passione anche con il passare degli anni. A quei concerti venivano i bambini con i nonni o, addirittura, persone che organizzavano le vacanze in funzione delle tappe del tour. La professionalità e l’entusiasmo che non viene meno, nonostante le tragedie e i cambi di formazione: questi sono i valori che ho appreso dai Nomadi».
Andando ai concerti abbiamo sempre pensato che il ruolo della band o del cantante di apertura sia molto ingrato.
M. C.: «Da una parte è bello che gruppi importanti diano spazio ai giovani ma, dall’altra, il pubblico può essere veramente crudele: non sono lì per te e, se non piaci, te lo fanno capire immediatamente. Ho esordito a Novellara, davanti a quasi 12.000 persone, nella tappa del tributo ad Augusto Daolio. Salgo sul palco, canto: sono accolto benissimo e applaudito. A concerto finito vado a bere una birra con il gruppo e Max (Massimo Vecchi n.d.r.), il bassista, mi dice: “È andata bene”; io annuisco dando la cosa quasi per scontata, ma lui mi guarda e racconta che a qualcuno è capitato di essere fischiato talmente tanto da dover smettere di suonare. Fortuna che me lo ha detto dopo l’esibizione!».
Alla conferenza stampa di presentazione della Stagione dello Spazio Tertulliano ha citato questa frase di Charles Bukowski: “La gente è il più grande spettacolo del mondo. E non si paga il biglietto”. Vuol dire che ha già spunti per scrivere Monologhi pop volume 3?
M. C.: «Cosa volete che vi dica! Vi faccio vedere così capite quanto sono matto. (Estrae dalla tasca lo smartphone e inizia ad armeggiare cercando un file). Questa è la cartella “nuovo spettacolo” e tutte queste sono cose che mi sono segnato e potrebbero essere utilizzate. Sono entrato in quella fase in cui mi appunto tutto quello che mi incuriosisce. L’idea è andare avanti. Quando abbiamo iniziato, Camilla e io ci eravamo dati delle scadenze temporali: “Vediamo dove siamo tra un anno o due.” La realtà è che abbiamo capito che finché ci saranno energia e scambio di energia (se ce lo potremo permettere), non finiremo mai».
Silvana Costa
Leggi anche:
Le cose non contano nulla
La stagione 2014/2015 dello Spazio Tertulliano
Alcuni video per raccontare il percorso artistico:
Soffro più del Mio Cane (e Allora Ballo)
True as we were born
Mente e Cemento
Tu tu
Martino Corti feat. Nomadi – Il Capitano
Stare QuiAppuntamento a teatro:
C’era una svolta – Monologhi pop vol. 2
di Martino Corti e Gianfelice Facchetti
con Martino Corti, Luca Nobis, DJ producer Kustrell
produzione CimiceSpazio Tertulliano
via Tertulliano 68 – Milano
dall’ 1 al 12 ottobre 2014
www.spaziotertulliano.it