Per la nona edizione del Triennale Design Museum Silvana Annicchiarico affronta il design italiano dal punto di vista del gender.
La storia dell’architettura e del design – due discipline che confluiscono l’una nell’altra – è punteggiata di presenze femminili che hanno saputo imporsi nonostante tutto. Nonostante i tempi: pensiamo a Charlotte Perriand a lungo liquidata come mera collaboratrice di Le Corbusier e, al contrario, stella di prima grandezza che seppe brillare a lungo, anche dopo essere uscita dallo studio dei fratelli Jeanneret. Nonostante un contesto lavorativo – ancora oggi – profondamente maschilista: pensiamo a Gae Aulenti, un’artista a tutto tondo, cui si devono lavori divenuti capisaldi del design, della grafica, dell’allestimento e dell’architettura. Zaha Hadid, prematuramente scomparsa a pochi giorni dall’inaugurazione della XXI Triennale, ha sempre tenuto a precisare che lei era un architetto. Punto. Nessuna importanza doveva essere data al suo sesso perché, come i suoi progetti hanno sempre dimostrato, la qualità del suo lavoro di donna non era da meno rispetto a quella dei suoi colleghi maschi.
Tutto ciò premesso, sin dall’annuncio della tematica del nuovo allestimento del Triennale Design Museum, in noi è montata l’indignazione. Anni di lotte per ottenere di essere giudicate in base al talento e non al sesso di afferenza sono stati azzerati nel momento in cui Silvana Annicchiarico, nella duplice veste di Direttore del TDM e curatore del nono allestimento del Museo, ha annunciato il titolo: W. Women in Italian Design. Ovvero i lavori delle designer sono messi in mostra come fossero animali rari. E la visita, che speravamo avrebbe fugato i nostri dubbi, non ha purtroppo spazzato via i pregiudizi.
Attraversato il solido ponte di legno di progettazione maschile – a questo punto ci sembra giusto specificarlo – si accede alla sezione introduttiva dedicata all’ormai scontata riflessione sulla sottile linea che separa l’artigianato, da un lato, dall’arte e, dall’altro, dalla produzione industriale di qualità. Ecco allora che l’ampio spazio d’accesso alla mostra diviene il luogo ove celebrare il mito di Penelope, stendendo come panni ad asciugare al sole, tra i vicoli dei quartieri spagnoli di Napoli, pregiati pizzi proto-industriali realizzati agli albori del XX secolo dalla Aemilia Ars, una delle prime realtà produttive a spalancare le porte alla manodopera femminile. La tentazione di rifugiarsi nella Tenda (1965) creata da Carla Accardi è forte, ma noi siamo qui per recensire l’esposizione e andiamo avanti.
Imbocchiamo, dunque, il percorso di visita proposto al pubblico, invocando l’intercessione delle dieci sante – patrone di differenti categorie artigiane – che troneggiano dagli stendardi appesi alle pareti realizzati da altrettante illustratrici italiane. Gli oggetti sono esposti in sequenza cronologica e risaltano, nonostante la sontuosa quinta, grazie all’allestimento minimalista firmato dalla scenografa Margherita Palli. Piedistalli e ampie pedane dai colori neutri ospitano, alla guisa di altari pagani, oltre 600 oggetti, alcuni divenuti veri e propri oggetti di culto come la seduta Tripè (1948) di Lina Bo Bardi o la lampada Pipistrello (1965) di Gae Aulenti, ma anche la Scatola dei solidi geometrici (1907) di Maria Montessori o il Bacio Perugina (1924) nato da un’idea dell’imprenditrice Luisa Spagnoli. Quasi a voler ricreare la casa descritta da Palazzeschi ne L’amica di nonna Speranza (1911), fanno bella mostra di sé oggetti curiosi, mobili imponenti e piccole suppellettili protette da campane di vetro come la nonna usava fare con i biscotti, per mantenerli fragranti.
La bambola Lilibeth (1949) di Gioconda Velluti deve aver intuito i nostri giudizi perché ci guarda sdegnosa. Per fortuna c’è Topo Gigio, creato da nel 1959 da Maria Perego, a farci sorridere. Avanti, quindi, tra i pattern di Nathalie Du Pasquier e le eteree creazioni di Alessandra Baldereschi che sembrano vere e proprie opere d’arte; tra la balena (Fantastico_domestico, 2011) di Valentina Carretta e i più rassicuranti oggetti disegnati da Matali Crasset e Patricia Urquiola. Avanti sino in fondo, sino allo spazio arredato con grandi divani avvolgenti dai quali ammirare il panorama e riflettere su quanto visto prima del commiato multimediale finale.
Una puntualizzazione per concludere. Silvana Annicchiarico si compiace nell’affermare che al TDM9 “Siamo in assoluta assenza di testosterone”. Ci spiace contraddirla. Primo, perché la fecondazione progettuale non è un processo che avviene per illuminazione divina, mentre si è isolati nel proprio studio: non vogliamo mettere in dubbio la maternità degli oggetti esposti ma ricordiamo quanto voracemente la creatività si nutra di suggestioni, scambi e dialoghi, anche con colleghi di sesso maschile. Secondo perché l’ormone è presente anche nel corpo femminile e la sua completa assenza è indice di una patologia in atto.
Silvana Costa
La mostra continua:
Triennale Design Museum
Triennale di Milano
viale Alemagna, 6 – Milano
orari martedì – domenica 10.30-20.30; lunedì chiuso
la biglietteria chiude un’ora prima delle mostre
www.triennale.org
Triennale Design Museum
W. Women in Italian Design
a cura di Silvana Annicchiarico
progetto di allestimento Margherita Palli
progetto grafico Irene Bacchi