Debutta, al Teatro Elfo Puccini, la prima puntata di un progetto che si dipanerà nell’arco di due Stagioni ed è subito chiaro quanto le vicende rappresentate si prestino ad ampi dibattiti.
Il tandem Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani firma la trasposizione italiana di The Great Game, l’epopea sulla storia recente dell’Afghanistan commissionata nel 2009 dal londinese Tricycle Theatre ad un gruppo di giornalisti. Lo scopo dichiarato del progetto è spiegare ai connazionali in quale contesto socio-politico si stesse muovendo l’esercito di Sua Maestà, allora in missione contro i talebani, e perché tale operazione sembrasse destinata al fallimento. Da secoli infatti inglesi e russi prima e statunitensi poi hanno cercato, senza successo, di colonizzare questa porzione montuosa dell’Asia, dando vita a quel gran lavorio di attività diplomatica e di spionaggio che Rudyard Kipling, nel racconto Kim, definisce “the great game”. Un grande gioco che ha lasciato sul terreno un desolante numero di cadaveri – in gran parte occidentali – cui, purtroppo, non sembra ancora possibile porre fine.
Ciascuno degli autori coinvolti ha saputo dar vita a un quadro realistico, rappresentativo di un’epoca o di una visione per il futuro, abbandonando il taglio giornalistico o documentaristico che gli è peculiare a favore di una dimensione prettamente teatrale. Sono ora in scena i primi cinque episodi, disposti in ordine cronologico, per raccontare con la voce dei testimoni, le tappe fondamentali della storia afghana. Si alternano uomini comuni e personaggi pubblici ma tutti, indifferentemente, aprono al pubblico in sala le porte di cuore e mente. Sia la schizzinosa Lady Florenthia Sale (Claudia Coli), moglie di un generale inglese – una dei protagonisti di Trombe alle porte di Jalalabad di Stephen Jeffreys – che nel corso della sua lunga permanenza mai è riuscita ad integrarsi: ella giudica i propri interlocutori secondo i rigidi costumi londinesi, si serve di domestici inglesi diffidando della servitù locale e importa i beni di consumo dalla Madrepatria. Siano re Amanullah Khan (Enzo Curcurù) e la regina Soraya Tarzi (Emilia Scarpati Fanetti) – protagonisti di Questo è il momento di Joy Wilkinson – in fuga per salvare la vita eppure già intenti a pianificare il ritorno per riprendere il processo di modernizzazione del Paese che sono stati obbligati a interrompere.
Ogni singola storia ricorda al pubblico come gli stranieri abbiano preteso di imporre a uno Stato sovrano le proprie condizioni e le proprie regole, senza rispetto o comprensione per il popolo – o, meglio, per l’insieme di tribù – che si trovano di fronte. Tra i cinque episodi Legna per il fuoco, scritto da Lee Blessing, è probabilmente quello che meglio denuncia l’inutilità di un simile approccio imperialista. Owens (interpretato da Massimo Somaglino), direttore della CIA di Islamabad, viene irriso per il suo bisogno di sapere a chi vadano le armi che gli USA, attraverso i pachistani, forniscono alle tribù afghane in guerra contro i russi. Egli è conscio come la mancanza di controllo sulla distribuzione delle armi – veri e propri rottami bellici rastrellati sui mercati turco e cinese a poco prezzo – tra le fazioni coinvolte nella guerra porterebbe a enfatizzare conflitti interni latenti, sino a renderli ingestibili. Najibullah (ancora una volta il poliedrico Enzo Curcurù), ultimo Presidente della Repubblica Democratica dell’Afghanistan, ferocemente trucidato dai talebani nel 1996, in Minigonne di Kabul di David Greig, svela come, in un Paese diviso tra tante tribù, il segreto per assicurarsi la vittoria sia, banalmente, stare dalla parte dei deboli che si alleeranno tra loro per sconfiggere il forte di turno.
Al di là dell’abbrutimento causato da guerra, distruzione e povertà, emerge il ritratto di una Nazione fiera, di una cultura secolare estremamente raffinata ma costretta a soccombere, prima sotto il governo degli stranieri e poi per mano dei Mujāhidīn provenienti da Iran ed Egitto. Unendo le singole parti del puzzle storico e focalizzandosi su singole tematiche, è altresì possibile studiare come sia variato il ruolo delle donne nel corso dei secoli, sino a offrire loro, alla fine degli anni Ottanta, la possibilità di vestire abiti occidentali, studiare e lavorare fuori casa.
In poco meno di tre ore scorrono sotto gli occhi degli spettatori centocinquant’anni di vicende afghane, dal 1842 al 1996, dalla truculenta ritirata degli inglesi – di quasi trecento mila sudditi della regina Vittoria in fuga solo una settantina arrivano vivi in India – alla presa del potere da parte dei talebani. l cinque focus aperti sulla linea del tempo mosaico da Stephen Jeffreys, Ron Hutchinson, Joy Wilkinson, Lee Blessing, David Greig sono connessi tra loro grazie a contributi video, commentati dalle voci dei due registi. Elio De Capitani e Ferdinando Bruni ricordano inoltre al pubblico in sala, con dovizia di numeri, quanto le missioni dell’Esercito italiano in terra afghana siano costate ai contribuenti.
Afghanistan: il grande gioco, oltre a tutto ciò che abbiamo narrato, è pure un mirabile esempio di teatro inglese contemporaneo, dotato di una grande capacità inventiva nel restituire il clima e la complessità di un racconto, al fine di sopperire alla modestia di risorse della produzione. In scena, in questo caso, si alternano solo otto attori – Claudia Coli, Michele Costabile, Enzo Curcurù, Leonardo Lidi, Michele Radice, Emilia Scarpati Fanetti, Massimo Somaglino, Hossein Taheri – che con abilità recitativa riescono a evocare folle, tempi e terre lontani, aiutando il pubblico a immaginare contesti estremamente complessi. Carlo Sala da un lato, ispirandosi agli accampamenti tribali piuttosto che agli insediamenti militari, risolve magistralmente le problematiche di una scenografia flessibile, in grado di adattarsi in breve tempo – senza troppi artifizi tecnologici – ad un nuovo episodio. Dall’altro si cimenta con un’accurata ricostruzione storica dei costumi, con l’unica pecca di aver utilizzato tessuti dai colori troppo brillanti per le logore divise dei soldati asserragliati nel forte.
Appuntamento alla prossima Stagione per la seconda, imperdibile, parte. In tale occasione Bruni e De Capitani hanno ventilato l’idea di proporre una maratona che porti in scena, in maniera continuativa, l’intero progetto e una serie di eventi collaterali dedicati ad approfondire la conoscenza dell’Afghanistan.
Silvana Costa
Lo spettacolo continua:
Teatro Elfo – sala Fassbinder
c.so Buenos Aires 33 – Milano
fino a domenica 5 febbraio 2017
orari: dal martedì al sabato 20.00; domenica 15.30
www.elfo.orgAfghanistan: il grande gioco
primi 5 episodi
traduzione Lucio De Capitani
regia Ferdinando Bruni, Elio De Capitani
scene e costumi di Carlo Sala
video Francesco Frongia
luci Nando Frigerio
suono Giuseppe Marzoli
coproduzione Teatro dell’Elfo ed Emilia Romagna Teatro Fondazione
durata: 160′ + 15′ di intervalloInvasione e indipendenza 1842-1930
Trombe alle porte di Jalalabad
di Stephen Jeffreys
con Claudia Coli, Massimo Somaglino, Leonardo Lidi, Michele Radice, Michele Costabile, Enzo Curcurù
La linea di Durand
di Ron Hutchinson
Massimo Somaglino, Hossein Taheri, Michele Radice
Questo è il momento
di Joy Wilkinson
con Enzo Curcurù, Hossein Taheri, Emilia Scarpati Fanetti, Michele RadiceIl comunismo, i Mujāhidīn e i Talebani 1979-1996
Legna per il fuoco
di Lee Blessing
con Massimo Somaglino, Leonardo Lidi, Claudia Coli, Michele Costabile
Minigonne di Kabul
di David Greig
Claudia Coli, Enzo Curcurù
Prossime tappe:
7-19 febbraio
Teatro delle Passioni, Modena14-18 giugno
Arena del Sole, Bologna