In Triennale una mostra affronta i grandi cambiamenti in corso nel continente africano dal punto di vista architettonico, urbanistico ed infrastrutturale.
La nostra visita alla mostra allestita in Triennale sull’architettura africana è accompagnata dalle lievi note di Indépendance Cha Cha, la canzone simbolo dell’indipendenza del Congo, eseguita da Le Grand Kallé. Una musica lieta che ben sintetizza, con il suo ritmo incalzante, l’inesorabile processo di trasformazione in corso in Africa. La prima sezione, numeri alla mano, dimostra infatti come tra pochi decenni – complici interventi mirati a sconfiggere denutrizione e malattie – la popolazione di pressoché ogni Stato sub sahariano raddoppierà. La terra che ha cullato la nascita dell’umanità è tra le zone più ricche di materie prime del pianeta e, se i suoi abitanti riusciranno a compiere il passo che li trasformerà da estrattori a trasformatori di petrolio e minerali, si potrà finalmente registrare un forte balzo in avanti anche negli indici relativi al tasso di istruzione e al reddito procapite.
Il titolo della mostra riassume perfettamente i mille interrogativi che lo sviluppo in corso trascina con sé. Africa Big Change Big Chance allude alla necessità che la gente africana trovi un proprio modello per la gestione dei grandi movimenti di persone e per il controllo delle materie prime, ma anche che impari a far fronte alla pressione dell’urbanizzazione, individuando soluzioni per uno sviluppo più equo rispetto a quello perseguito sino ad ora. Benno Albrecht, curatore dell’esposizione, indaga la tradizione architettonica, urbanistica ed infrastrutturale del recente passato africano per individuare come i professionisti abbiano impiegato correttivi progettuali mutuati dalla tradizione locale per adattarsi a condizioni ambientali estreme. Devono infatti essere questi progetti gli esempi da cui partire per elaborare una nuova via di sviluppo, prendendo in mano il proprio destino ed evitando di assumere acriticamente modelli plasmati sulle esigenze dei contesti europeo, americano o asiatico. La seconda – e più corposa – sezione della mostra, intitolata Architettura della modernità, offre una carrellata di progetti realizzati dal secondo dopoguerra ai giorni nostri, evidenziando come i dettami del movimento moderno siano stati interpretati ed adattati alle necessità locali. Le opere sono esposte in ordine cronologico, utilizzando fotografie e plastici per renderle facilmente comprensibili anche ai non addetti ai lavori. I tavoli dell’allestimento altro non sono che cataste di materiali riciclati che, una volta finita la mostra, verranno trasferiti in Africa per realizzare nuove costruzioni all’insegna della sostenibilità, sotto la supervisione del veneziano IUAV. Il rispetto dell’ambiente e delle sue risorse, nei progetti più recenti abbandona infatti il cemento per riscoprire i materiali tipici della tradizione quali i tetti di paglia utilizzati dai Masai e ora proposti per residenze tecnologiche. Tradizione ed innovazione si fondono quando i disegni tribali dei tessuti vengono utilizzati per decorare le austere facciate degli edifici governativi o il pattern delle stuoie viene ripreso nella maglia dei frangisole dei dormitori dei campus che sorgono dal nulla sugli altipiani desertici.
La lezione dei grandi maestri dell’architettura è arrivata in Africa anche grazie a professionisti come l’inglese Edwin Maxwell Fry che, formatosi negli studi di Gropius e Le Corbusier, decide di trasferirsi con la moglie Jane Drew nelle colonie dell’impero per realizzare edifici di primaria importanza sociale quale l’Università a Ibadan in Nigeria (1949-60). Al californiano Wallace Neff si deve l’ideazione delle Bubble Houses: residenze a bassissimo costo, componibili modularmente, realizzate alla fine degli anni ’40 in Senegal, facendo colare cemento rinforzato su una sorta di pallone gonfiabile. Non mancano i nomi di celebri architetti invitati a progettare opere rappresentative quali l’Università di Constantine a Ain El Bey, Algeria (1969) firmata da Oscar Niemeyer e l’Aeroporto di Dar Es Salaam in Tanzania (1977-84) disegnato da Paul Andreu.
La terza sezione, Architetture continentali, è dedicata alle grandi infrastrutture transnazionali: dighe, oleodotti, impianti solari ed eolici. Sin dagli anni Sessanta le grandi imprese italiane – Impregillo ed ENI tra tutti – sono presenti in prima linea con il loro know how nella realizzazione di interventi che segnano profondamente il territorio. La tecnologia sviluppata nei distretti italiani del marmo risulta invece fondamentale nel grande progetto patrocinato da UNESCO per spostare i templi di Ramesse II e Nefertari ad Abu Simbel che, a causa costruzione della diga di Assuan, rischiavano di essere sepolti dalle acque.
Una quarta sezione, dedicata alle Città della globalità, riflette sulle trasformazioni in atto nelle grandi metropoli e sulle linee guida utilizzate per le città di nuova fondazione dietro cui, sovente, ci sono grandi società cinesi che realizzano chiavi in mano sia le infrastrutture che gli edifici.
Queste le tre sezioni principali in cui sono organizzati i materiali in mostra che, lungo il percorso di visita, si compenetrano tra loro nel tentativo di rendere la complessità della tematica della gestione del territorio alle differenti scale. Lungo le pareti del diorama sono appesi altri materiali, complementari, quali un dettagliato studio sul limes sub sahariano che, utilizzando le foto aeree, identifica permanenze e trasformazioni di questa estesa struttura antropogeografia. Di fronte sono esposti i reportage di dieci fotografi che, con il loro lavoro, cercano di leggere e comprendere – loro per primi – la contemporaneità che li circonda.
La mostra continua:
Triennale di Milano
viale Alemagna, 6 – Milano
fino a domenica 28 dicembre 2014
orari martedì – domenica 10.30 – 20.30
giovedì 10.30 – 23.00 lunedì chiuso
la biglietteria chiude un’ora prima delle mostre
www.triennale.org
Africa
Big Change Big Chance
a cura di Benno Albrecht
curatore per Triennale Architettura Alberto Ferlenga
consulenti scientifici Antoni Folkers, Ola Uduku, Vanessa Watson
allestimento Benno Albrecht, Enrico Guastaroba
immagine coordinata e grafica Stefano Mandato
fotografi Ali Charabi, Nadia Ferrouhki, Mouna Karray, Kirippi Katembo, Ala Kheir, Mack Magagane, Pierrot Men, Charles Okerke, Justin Plinkett, Guy Tillim
Catalogo
Africa. Big Change Big Chance
a cura di Benno Albrecht
Compositori, 2014
319 pagine
prezzo 28,00 Euro