Allo Spazio Oberdan di Milano Robert Capa racconta gli anni della Seconda guerra mondiale in Italia: lo sbarco degli Alleati, le città ridotte in macerie, l’esultanza della popolazione e il volto umano dei soldati.
Il 25 aprile festeggeremo i settant’anni della resa dell’esercito nazifascista e la liberazione dell’Italia. Molte sono le iniziative in programma per celebrare degnamente questo anniversario e Milano gioca d’anticipo, proponendo un’emozionante mostra dedicata alle fotografie realizzate in Italia, durante la Seconda guerra mondiale, da Robert Capa al seguito delle truppe statunitensi.
Settantotto fotografie ci raccontano, istante per istante, i tre grandi sbarchi Alleati in Sicilia, a Salerno e Anzio che, per colui che è considerato un indiscusso Maestro dei reportage di guerra, potrebbero essere considerate preziosi banchi di prova per calibrare occhio e strumenti in vista dell’epico sbarco a Omaha Beach, in Normandia, il 6 giugno 1944.
All’ingresso della mostra è posizionata una fotografia di Robert Capa scattata nel 1943 a Napoli da George Rodger, uno dei colleghi con i quali, nel 1947, fonda l’agenzia Magnum. Capa sorride mentre termina di fumare la sigaretta; sembra ci stia attendendo per raccontarci di quei giorni drammatici vissuti a fianco dei soldati: in trincea, in pattuglia, durante il pranzo frugale, sulle navi da guerra o a bordo di un aereo militare in volo dalla Tunisia alla Sicilia. Un’emergenza vissuta in prima linea, seppur imbracciando l’apparecchio fotografico invece del fucile, ma con tutta l’umiltà di chi, durante la parata per le vie del corso per festeggiare la liberazione di Palermo, fa un passo indietro per lasciare che siano i militari a riscuotere gli applausi della gente. Ma, soprattutto, per scegliere un’inquadratura che gli consenta di mettere a fuoco i volti dei bambini orgogliosi di essere riusciti a montare sulla jeep e gli occhi stanchi degli uomini che hanno indossato l’abito della festa come fosse il giorno della processione del santo patrono.
Capa, cha allo scoppio delle Seconda guerra mondiale è appena giunto a New York dalla natia Ungheria, in fuga dalle persecuzioni antisemite, una volta rispedito in Europa, in prima linea come corrispondente per la stampa statunitense, preferisce indugiare sui risvolti sociali del conflitto piuttosto che sui trucidi momenti della battaglia. Senza schierarsi con vincitori o vinti documenta quei piccoli gesti pietosi che conferiscono alle battaglie una componente umana: il soldato alleato che si carica in spalla la bambina per condurla più velocemente al rifugio in vista dell’imminente attacco; i soldati che al temine della battaglia portano al campo le barelle con i compagni morti o feriti; i medici con l’emblema della croce rossa fissato all’elmo che curano, senza distinzione, soldati Alleati o tedeschi e offrono ristoro ai civili provati da lunghi giorni di assedio e bombardamenti. Ogni fotografia, se osservata attentamente, ha il potere di raccontarci storie fantastiche, alla stregua del soldato che raccoglie attorno a sé bambini entusiasti di sentirgli narrare emozionanti avventure mentre le ragazze lo osservano scambiandosi occhiate maliziose. Le stampe in bianco e nero esposte in mostra sono accompagnate da brani estratti dal diario dal fronte di Capa, pubblicato nel 1947 in lingua inglese e uscito nel 2011 in Italia, tradotto da Gianni Berengo Gardin, con il titolo Leggermente fuori fuoco.
Sono foto dall’alto potere iconico, come quella scelta per il manifesto che ritrae soldati americani a Troina che si rifocillano con le spalle protette dalle massicce mura della cattedrale – mentre su di loro veglia la statua di un angelo. Beatrix Lengyel, la curatrice di questa coinvolgente mostra, facendo proprio l’approccio di Capa, pone con assoluta naturalezza i volti di celebri condottieri quali quello di Theodore Roosevelt Jr. – figlio dell’ex presidente statunitense, che combatte in entrambi i conflitti mondiali – di fianco a quello di piccoli-grandi eroi locali come Domenico Matteo, un pastore che guida i soldati statunitensi e canadesi su percorsi sicuri tra i boschi, sulle montagne intorno a Cassino.
Muovendoci tra le sale, restiamo colpiti dal ritratto energico e positivo della figura femminile che emerge prepotentemente dagli scatti. Oltreoceano l’emancipazione della donna ha raggiunto stadi avanzati, al punto da permettere loro di partecipare alle operazioni militari con la divisa da militare e non più solamente come crocerossine, sebbene Capa preferisca ritrarre le soldatesse come angeli del focolare mentre, in un momento di pausa, sono intente a lavorare a maglia. Del resto, anche in Italia lo scoppio della guerra, con la partenza degli uomini per il fronte o per la macchia, ha assegnato finalmente alla donna un ruolo di primo piano, imponendo loro di farsi carico delle sorti della famiglia e di prestarsi come insospettabili messaggere delle brigate partigiane. Capa resta affascinato dai volti sofferenti delle madri che raccolgono bambini e provviste per fuggire dai paesi in fiamme; dagli occhi felici di giovani donne che, incurantemente mischiate agli uomini, accolgono l’arrivo degli Alleati sventolando il fazzoletto, restando così a capo nudo; dal piglio gioviale con cui le mogli obbligano i consorti alla passeggiata tra le bancarelle della città liberata imponendo un lento ritorno alla normalità; dalle anziane che non si fanno arrestare dal terrore e si avventurano tra le macerie ancora fumanti dei palazzi agrigentini. Dalla forza di queste donne partirà poi la spinta per una ricostruzione che, lentamente, le porterà a lavorare fuori casa e a lottare per rivendicare i propri diritti.
Di questi tempi di inerzia sociale, dove la cosa più semplice sembra essere addossare agli altri la responsabilità della mancata ripresa economica, forse sarebbe utile rispolverare la storia del nostro recente passato. Magari grazie a una mostra come questa che pone sotto gli occhi, con lampante semplicità, due elementi cruciali per la liberazione del nostro Paese. In primo luogo le immagini in bianco e nero non ci mostrano solo piloti dell’aviazione statunitense con il loro giaccone di pelle: tra le forze Alleate ci sono anche i padri di coloro che oggi, con immotivato senso di superiorità, vorremmo confinare con disprezzo dall’altro lato del Mare nostrum, facendo finta di ignorare quanto potremmo esser utili nel porre fine alle loro guerre. Sembriamo inoltre trascurare il ruolo strategico rivestito dagli italiani nel processo di rovesciamento della dittatura e di liberazione del Paese dall’invasore: le azioni degli Alleati, in molti casi, non avrebbero potuto essere tanto veloci ed efficaci senza il prezioso contributo della popolazione locale che si è unita loro e delle brigate partigiane. Forse, in vista del prossimo 25 aprile, dovremmo farci un esame di coscienza e chiederci cosa ne è stato della libertà consegnataci dai nostri padri e quanto del loro desiderio di riscossa, equità e pace alberghi ancora in noi.
Silvana Costa
La mostra continua alla:
Spazio Oberdan
viale Vittorio Veneto 2 – Milano
fino a venerdì 22 maggio
orari: 10.00-19.30; chiuso il lunedì
aperto il giorno di Pasqua, il lunedi dell’Angelo e il 25 aprile
www.cittametropolitana.mi.it/cultura/spazi/spaziooberdan/
Robert Capa in Italia 1943-1944
a cura di Beatrix Lengyel
promossa da Ministero delle Risorse Umane d’Ungheria e Consolato Generale di Ungheria di Milano
in collaborazione tra Città metropolitana di Milano, Fratelli Alinari Fondazione per la Storia della Fotografia e Museo Nazionale Ungherese di Budapest
con il patrocinio del Comune di Milano
Catalogo:
Robert Capa in Italia
a cura di Beatrix Lengyel
Alinari / Museo Nazionale di Budapest
192 pagine; 90 fotografie; 25×23 cm; brossura
prezzo: 35,00 Euro
www.alinari.it