Incontro con Hermes Mereghetti

Studiare i maestri della fotografia italiana è tappa imprescindibile per chiunque si avvicini a quest’arte. Conosciamo i loro lavori ma spesso non i loro volti. Hermes Mereghetti ha colmato tale lacuna con un bel libro in cui i ritratti divengono una porta d’accesso al pensiero di 101 fotografi italiani.

Su Artalks si parla spesso di fotografia, affascinati da storie che conducono avanti e indietro nel tempo e in viaggio per il mondo, scoprendo culture, architetture, situazioni e, soprattutto, persone. Degli autori si scrive molto ma i loro volti sono sovente ignoti perché posizionati dietro l’obiettivo, intenti a creare la magia.
Quegli autori hanno attratto la curiosità di Hermes Mereghetti che li ha incontrati e messi in posa e ora la serie di ritratti così realizzati può essere ammirata nel volume 100 e uno volti della fotografia italiana edito da Punto Marte Editore. Non potevamo dunque mancare all’appuntamento di inizio gennaio alla libreria Hoepli di Milano con Parla la fotografia per ascoltare Hermes Mereghetti raccontare di questa eccezionale esperienza che affonda le radici indietro nel tempo, nel periodo della sua formazione. Riproponiamo ai lettori le tappe fondamentali della storia professionale di questo giovane fotografo, figlio d’arte – il padre è Giovanni Mereghetti celebre per importanti reportage a sfondo sociale –, che ha saputo elaborare una propria autonoma cifra espressiva.

La prima macchina fotografica.
Hermes Mereghetti: «Da bambino non ho mai mangiato la verdura perché mio padre nel vano in fondo al frigorifero ci custodiva gelosamente le sue pellicole.
Ho il ricordo di lui che usciva per andare a lavorare e tornava dopo un mese con delle fotografie. Ovviamente ero piccolo e non avrei capito le situazioni politiche e sociali documentate nei suoi reportage perciò nei suoi viaggi si portava alcuni rullini a colori per scattare fotografie destinate solamente a me. Al ritorno, mentre gli stavo seduto sulle gambe, utilizzava quelle fotografie per descrivermi le storie vissute e i posti visitati. Ero affascinato da quei mondi lontani.
Quando avevo 8-9 anni decise di regalarmi la sua Olympus OM-2: è così che, molto tra virgolette, ho iniziato. La utilizzavo per fotografare gli amici, i parenti o il gatto: erano prove per comprenderne appieno il funzionamento. Mai avrei pensato che quella macchina fotografica sarebbe diventata parte del mio mestiere tant’è vero che l’ho accantonata».

Il bisogno di raccontare.
H.M.: «Ho sempre nutrito un forte desiderio di raccontare storie: lo facevo attraverso la chitarra, la poesia, la scrittura – che mi accompagna tutt’oggi – e per questo mi sono iscritto alla facoltà di lettere moderne all’Università Statale di Milano. La mia idea era quella di diventare un giornalista di guerra come i miei miti: Tiziano Terzani e Sydney Schanberg, il famoso inviato di guerra del New York Times in Cambogia. Frequentando l’università mi sono accorto che quella non era la mia strada perché non riuscivo a esprimere tutto quello che avevo dentro. Ho così deciso di abbandonare ma mi sono serviti mesi per trovare il coraggio di dire a papà che avrei voluto riprendere quella vecchia OM-2 accantonata da anni».

La formazione.
H.M.: «Papà è rimasto di stucco: è un mestiere difficile, in un periodo molto difficile per la fotografia però come dirmi di no quando avevo deciso di intraprendere il suo lavoro, la sua vita? Perché fare fotografia non è un lavoro o non è solamente quello.
Mi ricordavo la tecnica e a quel punto pensavo bastasse una buona macchina digitale ma mio padre era di tutt’altra idea. Mi disse: “Prima ti studi tutti i libri che abbiamo a casa e in ufficio e poi la macchina fotografica te la compro io”. Ho passato mesi a studiare i grandi autori e quando credevo di essere pronto a lavorare papà mi sottopose a un’ulteriore prova: estrasse di tasca un pacchetto di sigarette e mi disse “Adesso me lo fotografi. Hai tempo fino a stasera: metti la macchina sul treppiede e fai tutti gli scatti che ritieni necessari”. Ho eseguito, interrogandomi sulle ragioni di quell’esercizio, ma col tempo ho capito che quello al pacchetto di sigarette è stato il primo vero servizio fotografico che io abbia mai realizzato».

La svolta metodologica
H.M.: «Non volevo occuparmi di reportage, ero più attratto dalla fotografia in studio, dai ritratti e dallo still life. Ho così comprato i flash da studio e i fondali per allestire un piccolo set in casa e fare le prime prove. Poi è arrivato il momento di fotografare una modella: mi ero preparato – non mi vergogno a dirlo – una serie di fotografie che le mostravo e lei ne replicava la posa. Quelle orribili belle fotografie mi sono servite a perfezionare la tecnica e a gestire il set.
Quando decisi di intraprendere il percorso di 100 e uno volti della fotografia italiana uno dei fotografi che incontrai mi chiese di vedere il mio lavoro. Lo osservò e mi disse: “Le fotografie le sai fare ma manca una cosa fondamentale: te stesso”. Mi obbligò a farmi un autoritratto che parlasse di me: scelsi di ritrarmi seduto sul letto, con un tempo molto lungo che mi desse il tempo di alzarmi e andarmene. Dove non lo so ma volevo che in qualche modo quella situazione fosse un punto di svolta, un momento di cambiamento.
Da quell’episodio capii che non è importante la fotografia ma perché la sto scattando: serve una ragione importante per accendere la macchina in un mondo in cui ogni anno vengono prodotte 880 miliardi di fotografie».
 
L’esperienza di 100 e uno volti della fotografia italiana
H.M.: «Se sono incuriosito da una persona uso la fotografia per conoscerla, per rappresentarne azioni e mutamenti. 100 e uno volti della fotografia italiana nasce dal bisogno di scoprire chi ci fosse e quale storia si nascondesse dietro le fotografie che ho studiato per diventare fotografo.
Ho dei bellissimi ricordi e ho imparato tanto mentre portavo a termine il progetto che mi ha formato al 50% come fotografo e al 50% come persona.
Ho avuto difficoltà a lavorare con chi è abituato a fotografare e non a mettersi in posa. Ho trovato le persone più umili nei reporter, nelle persone che si sono sporcate le mani, che hanno mangiato fango per raccontare storie, l’umiltà di chi ha toccato con mano il dolore ed è riuscito a fotografarlo.
Loro erano i più semplici da ritrarre: mi bastava una chiacchierata di 2-3 ore e poi la fotografia veniva da sé. I più difficili da affrontare sono stati quelli che mi concedevano solo pochi minuti però la fotografia è il mio lavoro quindi è stato bene imparare a scattare anche in condizioni difficili.
L’esperienza di 100 e uno volti della fotografia italiana è stata una scuola di vita, ho imparato a relazionarmi con i miei soggetti. È una realtà colta a mio modo, in punta di piedi, per portarmi a casa il più possibile: le fotografie stanno nel libro, ma l’esperienza rimane nella mia mente».
 
La fotografia a Giovanni Mereghetti.
H.M.: «Quella a mio padre è stata una delle fotografie più difficili. Non perché mi avesse dato 3 minuti: in realtà mi ha dato 10 anni per quella fotografia. Il fatto è che il ritratto non mi piaceva mai. Fotografare le persone cui si vuole bene è sempre molto difficile per me: alla fine ho dovuto compiere una scelta per il libro ma sono ancora alla ricerca del ritratto giusto che lo rappresenti appieno».
 
l lavoro di fotografo secondo Hermes Mereghetti.
H.M.: «Ultimamente sto cercando di unire il ritratto al reportage perciò ho fotografato dei giovani immigrati: ho portato il mio studio in un centro d’accoglienza ed è stato molto importante e interessante vedere come loro si preparavano per la fotografia.
Io adoro questo genere, ho provato a scattare qualche fotografia per strada ma devo ammettere che ho paura a portare la macchina fotografica all’occhio. Cerco quindi di cogliere il più possibile quando sono in giro per il mondo, conoscere, vivere delle storie e poi portare tutto nel mio studio.
Io ambisco sempre ad avere una storia da raccontare e quando la trovo la studio a fondo, per mesi, a volte per anni e, non contento, la vivo. Solo alla fine la fotografo e questa operazione mi prende davvero poco tempo: una decina di scatti in genere mi bastano per portare in immagine quello che ho capito.
Ogni fotografia realizzata è sempre un autoritratto e ogni volta che la guardo mi dà la possibilità di rivivere la bellezza di un momento».
 
I vantaggi della fotografa digitale.
H.M.: «Ho iniziato a mangiare le verdure. Da quando è arrivato il digitale posso prepararmi grandi insalate».

Silvana Costa

https://hermesmereghetti.com/

Il libro:
100 e uno volti della fotografia italiana
di Hermes Mereghetti
prefazione di Enrico Raffo
in collaborazione con l’Archivio Fotografico Italiano
Punto Marte Editore, 2016
21×25 cm, 120 pagine, 101 illustrazioni, copertina cartonata
prezzo 20,00 Euro
www.puntomarte.com

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