Il teatro comico

Roberto Latini debutta al Piccolo di Milano con la commedia arlecchinoclasta in cui Carlo Goldoni traccia le regole del nuovo modo di fare teatro. Un allestimento che sciorina tante citazioni e lascia troppi dubbi per poterlo applaudire con entusiasmo.

In piazza del Duomo a Milano sono appena terminati i festeggiamenti per il Carnevale ambrosiano quando a pochi passi, nella sede storica del Piccolo Teatro in via Rovello, si apre il sipario sulla nuova produzione diretta da Roberto Latini: Il teatro comico di Carlo Goldoni. È questo un caposaldo della storia del teatro, un testo complesso dai molti livelli di lettura, uno spettacolo programmatico in cui a metà del XVIII secolo Goldoni spiega come crede debbano evolversi le rappresentazioni. Noi, alla luce di tali premesse, con negli occhi la mirabile trasfigurazione operata sul pirandelliano I giganti della montagna, già ci immaginavamo Latini portare una straordinaria ventata di freschezza in un’istituzione che, sebbene già da tempo orfana di Luca Ronconi, non sembra ancora pronta a cercare sino in fondo una nuova cifra linguistica.
Ne Il teatro comico storia e finzione si intrecciano: il Carnevale del 1749/50 sta per volgere al termine e per la compagnia di Girolamo Medebach si prospetta una quaresima più lunga e dura del consueto perché Cesare D’Arbes, l’impareggiabile Pantalone protagonista di tante rappresentazioni, se ne va allettato da altro ingaggio. Persa la star è dunque fondamentale che Carlo Goldoni, il poeta al soldo di Medebach da oltre un anno, inventi divertenti storie per non perdere il favore del pubblico. La necessità per Goldoni si trasforma in grande occasione per dare finalmente forma di testo compiuto alle idee che gli frullano in testa e rivoluzionare il modo di fare teatro allora in auge. Egli invoca il superamento della cosiddetta Commedia dell’arte, nota all’estero anche come Commedia all’italiana, una situazione canovaccio su cui le maschere della tradizione popolare improvvisano battute e acrobazie; Pantalone, Arlecchino, Colombina sono forse i nomi dei caratteri più noti, stereotipi rispettivamente del padrone avido e dei servitori scaltri.
Il teatro comico è la pièce d’esordio del nuovo percorso intrapreso dalla compagine di Girolamo Medebach, poi passata alla storia come Manifesto della Riforma goldoniana del teatro. Un testo complesso, un racconto che rasenta l’autobiografico (Goldoni cita compiaciuto la sfida lanciata a sé stesso di scrivere in un anno ben sedici commedie), una strabiliante composizione metateatrale in cui uno sparuto gruppo di attori, intento a provare il nuovo spettacolo, riflette sulle radicali innovazioni introdotte dal loro poeta. E sui possibili ritorni economici come Vittoria (Stella Piccioni), la seconda attrice, ricorda provocatoriamente al capocomico Orazio (lo stesso Latini):

VITTORIA – Gran novità si sono introdotte nel teatro comico!
ORAZIO – Pare a voi, che chi ha introdotto tali novità abbia fatto più male, o più bene?
VITTORIA – Questa è una quistione, che non è per me. Ma però vedendo, che il mondo vi applaudisce, giudico, che avrà fatto più bene, che male. Vi dico ciò non ostante, che per noi ha fatto male, perché abbiamo da studiare assai più, e per voi ha fatto bene, perché la cassetta vi frutta meglio

Eccoli quindi gli attori che come i naufraghi de La zattera della Medusa (1818/19) di Théodore Géricault si muovono all’unisono su un piano inclinato per mantenere l’equilibrio e non cadere rovinosamente a terra, sperando che il giudizio del pubblico li spinga benevolo lungo il nuovo cammino. Non si tratta solo di affidarsi a un copione scritto e di archiviare la folta schiera delle maschere italiane, ma anche di regole su come porsi agli spettatori e disporsi in scena. Le scenografiche allusioni alla distruzione delle vecchie consuetudini si rincorrono per tutta la durata della rappresentazione, come la colossale statua di Arlecchino che cade dall’alto frantumata e di cui i personaggi in scena non sanno che farsene, continuando a spostarla da un angolo all’altro alla ricerca di una collocazione che non intralci la recitazione. O, ancora, la differenza tra i costumi classici del primo atto, quando la compagnia deve decidere se valga la pena rinnovare il repertorio, e quelli informali – compaiono scarpe e pantaloni sportivi – indossati nel secondo atto per le prove de Il padre rivale del figlio, oppure Colombina che declama la parte sospesa a un cavo, in balia di un vento nuovo.

Eppure no. Non c’è molto di nuovo in questo spettacolo ma solo molti – forse troppi – riferimenti agli allestimenti storici del Piccolo Teatro, ai suoi registi, ai suoi attori. In ordine sparso elenchiamo: la statua che svetta alla destra del palcoscenico raffigurante Arlecchino in una nota posa di Ferruccio Soleri; il monologo finale di Latini in cui le parole si fanno pesanti come ronconiani macigni; l’attingere per maschere e modelli al ricco archivio di costumi del teatro; la parete bianca del fondale su cui si stagliano, a guisa di decorazione, le silhouette dei personaggi come nel Così fan tutte immaginato da Giorgio Strehler nel 1998 per l’inaugurazione della nuova sede teatrale progettata da Marco Zanuso. La Tempesta allestita da Strehler nel 1977/78 resta comunque la maggior fonte di ispirazione – dal palcoscenico minimalista alla Colombina fluttuante in aria come Ariel (Giulia Lazzarini) – sino al punto di far ascoltare la registrazione audio di un passaggio dell’opera shakespeariana. Il momento invero è stato molto gradito dal pubblico di affezionati frequentatori del teatro che stavano per sciogliersi in un applauso a metà atto. Non contestiamo l’indubbio valore di Giulia Lazzarini insignita lo scorso dicembre anche del Premio Ubu alla carriera – mentre a Roberto Latini è stato assegnato il riconoscimento quale Miglior attore 2017 – ma tutto ciò ci sembra tanto eccessivo quanto surreale e manieristico. Una sonora occasione mancata per l’Arlecchino senza maschera né giubba colorata de Il servitore di due padroni diretto, ormai un lustro fa, da Antonio Latella.
Il compiaciuto gioco di citazioni appare superficiale: una carrellata di riferimenti della storia passata e recente del produttore piuttosto che una scelta motivata da riflessioni filologiche. Citazioni che probabilmente non saranno colte da spettatori estranei a questo contesto che si troveranno a giudicare Il teatro comico dimezzato del suo significato simbolico.
Cosa resta dunque? Resta una rappresentazione di sorprendente lentezza in cui la carica comica della battuta si stempera e si ride giusto per la forte mimica degli interpreti o la bizzarria del contesto. Sono molti infatti gli escamotage introdotti da Latini per tener desta l’attenzione del pubblico, dalla campanella che suona per segnalare alla compagnia il momento di far pausa agli spari di pistola per sottolineare i passaggi drammatici, dai quadri dall’alto tasso poetico in cui Orazio scorrazza per il palcoscenico tra i corpi degli attori – come lo squalo di Quartett, penultima regia dell’artista romano – a Marco Sgrosso en travesti, come usava sino a pochi decenni prima dell’avvento di Goldoni, calato nei panni della cantante alla ricerca di ingaggio.
L’ansia di sorprendere, però, forse sfugge di mano a Roberto Latini e portiamo ad esempio di ciò l’introdurre l’esordio di ciascun personaggio in scena con il lazzo della mosca: scelta bizzarra – alla lunga noiosa – per una commedia dove si sottolinea energicamente, con ogni possibile stratagemma, l’avvento della Riforma teatrale. Scelta bizzarra perché la caccia alla mosca, così come l’ampio ricorso a smorfie, versetti e linguacce, rientrano nel ricco repertorio espressivo di Dario Fo, forse il più celebre esempio di autore di canovacci contemporanei. Erede diretto dei giullari medievali, Fo trova proprio nella Commedia dell’Arte – che in quest’opera si vorrebbe sotterrare – uno strepitoso mezzo espressivo che gli garantisce la possibilità di adattare i testi che gli valsero il premio Nobel a un contesto sociale in continua trasformazione, senza perdere incisività. E la Commedia dell’Arte, del resto, è stata ampiamente rivalutata nel Novecento da registi e autori teatrali italiani, ma soprattutto stranieri, dimostrandosi molto più vitale e ricca di sfaccettature di quel teatro dell’Ottocento, bolso e manieristico, che per alcuni decenni la soppiantò. In questo senso Latini, forse distratto dall’ansia citazionista, perde la capacità di confrontarsi criticamente e in maniera davvero personale con il testo e, allora, ci chiediamo che senso abbia scegliere proprio Il teatro comico e non una qualsiasi altra commedia goldoniana.

Silvana Costa

Lo spettacolo continua:
Piccolo Teatro Grassi
via Rovello – Milano
fino a domenica 25 marzo 2018
orari: martedì, giovedì e sabato 19.30
mercoledì e venerdì 20.30; domenica 16
lunedì  riposo
www.piccoloteatro.org

Il teatro comico
di Carlo Goldoni
adattamento e regia Roberto Latini
luci Max Mugnai
scene Marco Rossi
musiche e suono Gianluca Misiti
costumi Gianluca Sbicca
con (in ordine alfabetico) Elena Bucci, Roberto Latini, Marco Manchisi, Savino Paparella, Francesco Pennacchia, Stella Piccioni, Marco Sgrosso, Marco Vergani
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
durata: due ore e 30 minuti compreso intervallo