Al Museo Diocesano di Milano i reportage fotografici di Inge Morath – la prima donna entrata a far parte della mitica agenzia Magnum – permettono di compiere uno straordinario viaggio attorno al mondo, alla scoperta di genti e culture.
Il Museo Diocesano di Milano, recepite le disposizioni di legge per consentire al pubblico visite in totale sicurezza, riapre le porte dell’esposizione permanente e della mostra temporanea Gauguin, Matisse, Chagall. La Passione nell’arte francese dai Musei Vaticani (sino al 4 ottobre 2020) cui affianca la rassegna fotografica Inge Morath. La vita. La fotografia. a cura di Brigitte Blüml – Kaindl, Kurt Kaindl e Marco Minuz.
Sebbene il suo nome sia poco noto al grande pubblico, Inge Morath è una fotografa dotata di un indiscutibile talento che nel 1953 le consente di essere ammessa in veste di membro associato – prima donna in assoluto – nella celeberrima agenzia Magnum. Morath è probabilmente entrata a far parte della famiglia Magnum per una felice successione di eventi ma il corpus dei suoi servizi fotografici rivela grande qualità e originalità nella tecnica di racconto.
Austriaca di nascita, Inge Morath vive la II Guerra Mondiale a Berlino; dopo tale esperienza e i reportage sui prigionieri di ritorno in patria realizzati con Ernst Haas, come fotografa si propone di non voler più assistere a fatti di sangue e concentrarsi solamente sulla materia umana. Nel primo dopoguerra, periodo in cui il fotogiornalismo è ambito prettamente maschile, nonostante l’importante riconoscimento ottenuto e il periodo di formazione come assistente di Henri Cartier-Bresson, Inge Morath vede sovente assegnarsi lavori minori come sfilate di moda, aste d’arte o feste locali che lei accetta comunque con entusiasmo perché in linea con i suoi desideri professionali.
L’esame delle 150 stampe in bianco e nero in mostra permette di evincere come lo stile di Inge Morath derivi proprio dal suo guardare con sensibilità femminile i contesti sociali, mondani e culturali che si trova ad affrontare nel corso della carriera. Un chiaro approccio di ciò sono due fotografie dalla potente carica simbolica, realizzate in Iran nel 1956, posizionate in mostra una sopra l’altra, a raccontare una condizione femminile sospesa tra tradizione e modernità, tra apparente libertà e sottomissione ai rigidi dettami religiosi. Contraddizioni che la fotografa riesce a cogliere anche grazie alla meticolosità con cui si prepara a ogni servizio, studiano la storia, le tradizioni e la geografia dei luoghi che la attendono oltre, in molti casi, alla lingua arrivando a parlarne correntemente sette, tra cui il mandarino, al fine di stabilire empatia con le persone che incontra.
Studio e spontaneità sono due aspetti apparentemente antitetici ma inscindibili dell’approccio alla professione di Inge Morath che traspare da ogni scatto. La mostra, pur nel descrivere in modo semplice e lineare il lavoro di questa pioniera dell’era moderna, non può esimersi dal giocare sullo sdoppiamento dei temi affrontati: la vita e la fotografia; gli scatti di viaggio e i ritratti; il bianco e il giallo come colori guida dell’allestimento progettato da Patrizio De Mattio. Il percorso si apre con il racconto della vita di questa donna talentuosa, prima con un pannello dove la biografia è schematizzata per sommi capi e poi con una ricca selezione di fotografie tratte dal suo album dei ricordi: dall’impiego presso il Servizio Informativo Americano nel dopoguerra agli incarichi in giro per il mondo, dagli scatti anonimi a quelli di amici/colleghi del calibro di Cartier-Bresson o Haas a quelli della figlia Rebecca Miller. Sulla parete di fronte campeggiano l’autoritratto del 1958 e la sua rielaborazione del 2001 in cui è accostato a una pianta ormai secca: una sorta di presagio, immortalato su un rullino rinvenuto solo dopo la morte, all’interno di una delle macchine fotografiche, sue preziose compagne di viaggio.
Viaggi in cui vita e lavoro si incrociano nel compiere gli arcani disegni del destino, come quel primo incarico che nel 1953 la porta sul set di Moulin Rouge dove stringe amicizia con il regista John Huston che nel 1960 la invita in Nevada per documentare le riprese de Gli spostati. In tale occasione Inge Morath scatta a Marilyn Monroe un’indimenticabile serie di foto mentre danza all’ombra di un albero e conosce lo scrittore Arthur Miller, autore della sceneggiatura del film e marito della diva. Poco tempo dopo Miller divorzia da Marylin, si risposa con Inge e la porta a vivere a Roxbury in Connecticut, nel ranch acquistato dalla Monroe durante il loro matrimonio. La vita coniugale tiene a lungo Inge Morath lontano dal grande giro dei reporter ma in quegli anni ha modo di continuare a viaggiare, al seguito del marito, visitando terre a lungo sognate come per esempio la Russia, e pubblicando volumi monografici.
La seconda sezione della mostra è suddivisa tra i tanti Paesi esplorati e documentati, sovente tornandovi più volte nel corso della carriera. La rassegna si apre con Venezia, tappa imprescindibile non solo perché è una città italiana ma perché è qui che, come lei ama raccontare in libri e interviste, ha inizio la sua avventura di fotografa professionista quando, affascinata dalla luce che inonda calli e campielli dopo un temporale, non resiste a fissare su pellicola scorci surreali alternati a scene di vita popolare. Quelle prime immagini sono un esplicito omaggio a Cartier-Bresson con cui lavora a lungo e soddisfano appieno la filosofia dell’agenzia Magnum che punta a ritrarre le persone nella loro quotidianità. Una quotidianità che, grazie al bianco e nero, si ammanta di epicità come nel racconto della vita degli zingari irlandesi, di eleganza con le nobildonne spagnole o le dive hollywoodiane, di mistero quando in piena Guerra Fredda ottiene il permesso di fotografare i porti rumeni lungo il Danubio. Di sezione in sezione il visitatore diventa compagno di viaggio di Inge Morath per poi svagarsi mischiandosi alla varia umanità di New York, muovendosi con curiosità tra i turisti al Rockefeller Center, gli operai intenti a lavare i vetri dei grattacieli, i taxi con i loro bizzarri passeggeri, la quiete di Central Park e poi concedersi un trattamento di bellezza.
Al Museo Diocesano è pure presente una serie di fotografie scattate da Kurt Kaindl tra il 1990 e il 2002 – anno della morte di Inge Morath – all’interno del suo atelier ricavato nel vecchio granaio del ranch di Roxbury. I coniugi Kaindl lavorano a lungo a fianco di Morath per sviluppare progetti dedicati al suo lavoro e, dopo la morte, ne curano l’archivio. Archivio da cui escono i manifesti delle tante esposizioni dedicatele in questi decenni, i materiali che illustrano il modo di lavorare della fotografa – dai provini all’articolo pubblicato – e il lungo documentario che qui diventano preziose appendici della mostra.
Con il caldo il Museo Diocesano modifica gli orari di apertura perciò vi invitiamo a consultare il sito web per i dettagli e per tutte le iniziative collaterali in programma.
Silvana Costa
La mostra continua:
Museo Diocesano ‘Carlo Maria Martini’
piazza Sant’Eustorgio 3 – Milano
fino a domenica 1 novembre 2020
dal 6 luglio al 14 settembre aperta solo in orario serale 18.00 – 22.00
https://chiostrisanteustorgio.it/Inge Morath
La vita. La fotografia.
a cura di Brigitte Blüml – Kaindl, Kurt Kaindl, Marco Minuz
produzione e organizzazione Suazes
in collaborazione con Fotohof, Inge Morath Foundation, Magnum Photos
col supporto del Forum austriaco della cultura
coordinamento scientifico Cinzia Picozzi con Laura Proserpio
progetto grafico Patrizio De Mattio – DM+B&AssociatiCatalogo:
Inge Morath
La vita. La fotografia.
a cura di Marco Minuz
Silvana Editoriale, 2019
20×25 cm, 192 pagine, 190 illustrazioni, cartonato con plancia
prezzo 30,00 Euro
www.silvanaeditoriale.it