Intervista a Valeria Cavalli

Valeria Cavalli 11Dopo aver applaudito al Teatro Leonardo La Bottega del caffè nell’adattamento di Quelli di Grock, abbiamo capito che non avremmo dovuto rimandare oltre l’incontro con Valeria Cavalli che, con Claudio Intropido, rappresenta il cuore pulsante della Compagnia milanese.

Nell’ottobre del 2014 ha presentato Atto primo, la Stagione teatrale 2014/2015 del Teatro Leonardo di Milano. Si trattava di una Stagione monca, un primo atto cui lei non garantiva ne sarebbe seguito un secondo per la drastica assenza di fondi.
Valeria Cavalli: «Esatto. In realtà, però, si stava preparando qualcosa di ben più grande di un secondo atto».

La scelta di far confluire le produzioni di Teatro Leonardo e Teatro Litta sotto l’unica egida di MTM – Manifatture Teatrali Milanesi è stata una bella sorpresa. Nata spontaneamente o frutto dei pesanti tagli imposti dall’ultima riforma del FUS?
V.C.: «Diciamo che la riforma del FUS è stata un’occasione. Con Teatro Litta ci eravamo già trovati quattro o cinque anni fa per parlarne. Allora non eravamo riusciti a concretizzare. Poi, complici le scelte ministeriali, ci siamo chiesti: “Perché non farlo?”. Siamo due Compagnie che sono state vicine di casa per tanto tempo: la nostra precedente sede era in via Panzacchi, praticamente dietro il Bar Magenta (famoso locale milanese, sito nell’omonima via e a pochi metri da Palazzo Litta, n.d.r.) e, quindi, con Gaetano Callegaro e Antonio Syxty ci si conosceva da tempo. La cosa bella è che si tratta di un’unione che ha come base la libertà poetica. Di conseguenza, la poetica Grock resterà la nostra; quella Litta resterà la loro. Naturalmente, ci saranno anche situazioni in cui ci contamineremo. Ma, nel frattempo, cominciamo con il fonderci per creare un nuovo polo. MTM, al momento, ha in seno Grock e Litta, ma già dalla prossima Stagione arriverà anche Corrado d’Elia e, poi, chissà chi altri. A noi piacerebbe che, sotto quest’ombrello, potessero ripararsi diverse realtà milanesi».
 
Questo spiegherebbe perché Corrado d’Elia sia così spesso ospite del Teatro Litta con gli spettacoli della Compagnia Teatro Libero. Stasera, ad esempio, va in scena Caligola.
V.C.: «Esattamente. Corrado ha chiesto a noi se poteva far parte di MTM e noi, ben volentieri, lo abbiamo accolto. Aspettiamo anche l’adesione di altri colleghi, dato che ottimizzare le risorse è indubbiamente un risparmio in termini economici. Io sono contenta quando vado in un teatro che non è il nostro e vedo molti spettatori in sala, perché so che quegli spettatori assisteranno anche ad altri spettacoli. La nostra missione è quella di creare un pubblico e far sì che ruoti nei diversi spazi. Essere contenti che i nostri “avversari” non abbiano spettatori è sbagliato. Significa solamente che non ne avremo neanche noi».

Il teatro, in fondo, non è più un bene di lusso: ci sono molte offerte che propongono biglietti a prezzi scontatissimi.
V.C.: «Sì, il teatro non è più così caro. Ci sono diverse promozioni anche grazie a Internet:  costa quasi di più uscire per un aperitivo. E, ormai, c’è poca differenza con il biglietto del cinema».

Il Leonardo è collocato in piena Città Studi; le produzioni di Quelli di Grock hanno sempre un taglio giovane e organizzate molte rappresentazioni destinate alle scolaresche. Al giorno d’oggi, i ragazzi si appassionano ancora al teatro?
V.C.: «Diciamo che i ragazzi devono avere a fianco degli adulti che li aiutino in questo senso. E questo è un elemento in comune con il cinema di qualità, poco seguito dalle nuove generazioni. Del resto, la fruizione culturale è molto cambiata e i giovani sono spesso gli stessi protagonisti dei video che guardano. Quando vengono a teatro perché accompagnati da un adulto – un amico più grande, un genitore o un insegnante – si appassionano in maniera incredibile. Oggi è il quinto giorno di replica di Come un chiodo nella testa e abbiamo avuto una media di cinquecento spettatori a mattina. La loro presenza è un vero piacere: li vedi che arrivano, si siedono nella confusione più totale ma, appena comincia lo spettacolo, ammutoliscono. Alla fine, non la smetterebbero più di fare domande su quanto hanno visto. La televisione ha portato sicuramente un grande cambiamento nello stile di vita delle persone ma speriamo che le nuove generazioni si reinnamorino del teatro e, soprattutto, non lo vivano come un luogo noioso perché non è così».
 
Grazie al lavoro che fate con le scuole riuscite ad avvicinare i giovani ai classici ma anche a temi difficili quali la violenza domestica, il bullismo, le dipendenze, l’anoressia o l’emarginazione.
V.C.: «Esattamente. Claudio Intropido e io facciamo questo lavoro da molti anni. Ho voluto scrivere partendo da problematiche che appartengono proprio ai giovani, rendendole però in modo teatrale. Affrontandole, soprattutto, con grande ironia perché, nel momento in cui si fa sorridere il pubblico, subito dopo lo si scopre pronto ad emozionarsi e a commuoversi. Questa è una caratteristica propria di Quelli di Grock e adesso, essendo entrati a far parte di MTM, potrà essere condivisa».

Sono ormai oltre trent’anni che fa parte di Quelli di Grock, ricoprendo molteplici ruoli che vanno dalla direzione artistica alla scrittura, dalla regia all’insegnamento; lavorando fianco a fianco con Claudio Intropido e firmando spettacoli di grande successo. Agite insieme, a quattro mani, in simbiosi o procedete per complementarietà, con una separazione dei ruoli?
V.C.: «Lavoro con Claudio Intropido e lui lavora con me. Io sono molto curiosa del mondo che mi circonda, non soltanto dei classici del teatro. Di solito butto lì un’idea: per esempio, con Fuori misura, ho detto: “Mi piacerebbe parlare di Leopardi. È un poeta che adoro e vorrei toglierlo dalle aule scolastiche che sono così polverose”. Quindi, ho cominciato a scrivere un soggetto, una drammaturgia, che ho passato a Claudio e, a quel punto, abbiamo continuato lavorando insieme. Successivamente, abbiamo coinvolto Andrea Robbiano – l’attore che interpreta il monologo – aggiungendo nuovi elementi a una collaborazione ormai ben oliata. Claudio mi suggerisce quando aggiungere momenti più emotivi mentre io gli dò consigli di regia. In breve, mischiamo molto i nostri ruoli».
 
Nello spettacolo Fuori Misura colpisce non solamente la dimensione autorale ma soprattutto quella umana di Leopardi. Andrea Robbiano sa calarsi nel ruolo per poi uscirne e interagire con il pubblico con estrema maestria. È stato difficile costruire un testo e una regia che permettessero questi continui spostamenti di senso?
V.C.: «Per niente. Avevo pensato a Leopardi perché è uno dei miei poeti preferiti. L’ho sempre amato, in quanto è una figura complessa a livello umano: un uomo fisicamente deforme che scrive testi – non solo versi – bellissimi e attuali. È avvenuto tutto in una sola giornata. Di solito, quando mi frulla un’idea per la testa, vado a farmi una passeggiata al parco e la mia mente corre altrove (mi struggo a tavolino solamente nelle fasi successive). Ho pensato di cogliere l’occasione per rivalutare anche la figura dell’insegnante – di solito,  visto dagli studenti come noioso – e per farlo ho creato questo professore affascinante, che tiene una lezione altrettanto affascinante su un affascinante poeta. Si toglie così la patina sia a Leopardi che al teatro. Andrea ci fa divertire, ci fa sorridere, ci parla di Leopardi e di sé stesso. Il teatro è questo: è la vita».
 
L’eccellente Andrea Robbiano ha frequentato la Scuola di recitazione di Quelli di Grock con fini professionali. Che futuro possono aspettarsi i giovani attori italiani nell’attuale panorama teatrale?
V.C.: «Quasi tutti i nostri attori sono usciti dalla Scuola. Lavorare in teatro non è semplice: gli attori che si diplomano con noi, in parte sono assorbiti dalla Compagnia e, in parte, per fortuna, trovano lavoro anche altrove. È difficile, ma non bisogna demordere. Un tempo chi lavorava in teatro era precario per antonomasia ma ora sono tutti precari. Non siamo più così diversi dagli altri. C’è un’omologazione verso il basso».
 
Seguiamo da anni il lavoro di recupero dei carcerati attraverso il teatro portato avanti da Armando Punzo con la Compagnia della Fortezza. La Scuola di Quelli di Grock è un’istituzione celebre, frequentata sia da aspiranti artisti sia da amatori. In veste di insegnante si sente di attribuire al teatro importanza come momento di aggregazione, come strumento per stare bene con sé stessi?
V.C.: «Sicuramente il teatro è molto utile. Noi sottolineiamo sempre che non facciamo teatro-terapia però il teatro è di sé una terapia. In scena si sta insieme alle altre persone, recitare vuol dire ascoltare sé stessi e gli altri: questo è già un lavoro profondo sulla comunicazione.  Il Teatro Litta offre corsi solamente ludici, divertenti, mentre da Quelli di Grock il discorso è un po’ diverso. Alla nostra Scuola possono iscriversi tutti: in media ci sono 120 persone iscritte al primo anno di corso. Però, per accedere a ciascuno degli anni successivi, si devono sostenere dei provini. Dal terzo anno la Scuola diviene professionalizzante e l’ultimo provino, quello per il quarto anno, è quello più complesso perché vi sono ammesse solo sei persone che lavorano con borsa di studio».

Parliamo ora di La bottega del caffè, uno spettacolo che ricordo di aver visto anni fa in forma profondamente diversa. Come è nata l’idea di riprendere e ripensare un testo già portato in scena con successo?
V.C.: «Era il 2003, credo, e questa è una versione molto diversa. Abbiamo sentito il bisogno di riprendere un testo che ci piace molto per parlare di un tema al momento davvero scottante: la dipendenza dal gioco d’azzardo. Ci siamo detti: ”Riprendiamo il testo e sottolineiamo ancora di più quest’aspetto”. Anche all’epoca goldoniana il gioco d’azzardo era in voga ed era tollerato dallo Stato, esattamente come adesso. A Venezia c’erano molte bische e Goldoni stesso era un gran giocatore. Non a caso, non ne parla solo ne La bottega del caffè: anche ne Le donne gelose, andato in scena poco tempo fa al Piccolo, tratta il tema, scrivendo del gioco del lotto».
 
Da dove nasce questo gusto per i classici che riproponete con una visione contemporanea?
V.C.: «Quando questi testi sono stati scritti, nel XVII-XVIII secolo, un testo durava fino a cinque o sei ore perché la gente stava a teatro anche a mangiare, chiacchierare, combinare affari e altro ancora. Adesso i tempi sono cambiati –  non si riuscirebbe a stare a teatro cinque ore –  ma, siccome i testi classici parlano di temi universali, condivisibili anche nel nostro mondo frenetico, ci piace pensare di riproporli. Sottolineiamo come tante cose non siano cambiate, a iniziare dai sentimenti: l’amore è sempre l’amore; la gelosia e l’odio razziale dell’Otello sono ancora presenti nella nostra società. Ecco perché ci piace lavorare sui classici».
 
Dai tempi di Caos, che ormai è divenuto un travolgente classico del teatro fisico, a Fuori Misura, dove radete al suolo la quarta parete, siete approdati a La bottega del caffè, così graffiante e brechtiano. Come sente che si sta evolvendo lo stile di Quelli di Grock?
V.C.: «Dato il momento storico molto difficile, io ho un’idea che mi frulla in testa, ma devo ancora andare a farmi la passeggiata nel parco, magari quando farà più caldo. Vorrei proporre uno spettacolo molto comico, dove si rida. Mi piacerebbe lavorare sul tema del matrimonio, ma non come istituzione. Di quello se ne è già detto tanto e fin troppo. L’idea è parlare del giorno del matrimonio, di quello che succede nel momento in cui un uomo dice a una donna: “Ti voglio sposare” perché siamo nel 2016 ma, appena viene pronunciata la parola matrimonio, si torna indietro agli anni Cinquanta. Ragazze moderne, con  cellulare sempre in mano, corrono a tirar fuori il vestito bianco e organizzare feste colossali. C’è tutta una tradizione per il “giorno più bello della tua vita” – esiste ancora questo mito – e io ci vorrei ironizzare su».

Che aggiungere? Che a questo punto speriamo arrivi presto il tepore primaverile.

Silvana Costa

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