A Palazzo Reale prende il via, con una mostra sensazionale, il nuovo anno espositivo.
Quando Friedrich Nietzsche teorizza “l’eterno ritorno dell’uguale” probabilmente immagina cicli temporali un po’ più lunghi di una coppia di lustri. Pazienza, noi scomodiamo ugualmente il filosofo tedesco per sottolineare come, a distanza di un decennio, a Milano, si riproponga un’eccezionale sequenza di mostre curate da Gianni Mercurio e dedicate a Jean Michel Basquiat e Keith Haring. Utilizzando definizioni stereotipate, è molto facile accomunare i due enfant terrible attivi sulla scena newyorkese negli anni Ottanta: entrambi giovani, talentuosi e dannati; artisti in grado di segnare in modo indelebile la storia dell’arte di fine XX secolo e influenzare le correnti del nuovo millennio. Sia per Basquiat sia per Haring la strada – e le stazioni della metropolitana – sono immense tele su cui esprimersi, in attesa della big apple, della grande occasione di essere notati e dare una svolta alla propria carriera, conquistando rapidamente il pubblico, i collezionisti e l’attenzione di Andy Warhol.
Keith Haring. About Art già sulla carta si presenta come un evento di portata eccezionale che conta la presenza di centodieci opere realizzate nei dodici anni di attività, molte delle quali mai esposte prima, organizzate in otto sezioni tematiche: Umanesimo; Archetipi, miti e icone; Immaginario fantastico; Etnografismo; Moderno postmoderno; Performance. Un’occasione imperdibile per scoprire le tante sfaccettature di un’icona che seppe raccontare le molteplici contraddizioni della propria era.
Non è certamente a caso che Gianni Mercurio abbia scelto la sezione intitolata Umanesimo quale incipit del racconto della straordinaria esperienza artistica di Keith Haring. Mercurio ha voluto sottolineare innanzitutto l’impegno civile e sociale di Haring in un decennio, gli anni Ottanta, dominato da arrivismo, individualismo ed estetizzazione: atteggiamenti intuiti e platealmente cavalcati da Andy Warhol. Uno dei simboli più ricorrenti del vocabolario di Haring è infatti antropomorfo: un uomo stilizzato senza faccia né caratterizzazioni, in grado di rappresentare sia il singolo individuo sia l’umanità intera. L’omino a braccia alzate (Untitled, 1981) che accoglie il pubblico in visita alla mostra evoca l’Uomo vitruviano leonardiano – l’uomo al centro dell’universo e della propria era – e, sin da subito, vuol anche chiarire come Haring, troppo spesso liquidato come graffitista, abbia una profonda conoscenza della storia dell’arte. A guisa di un artista rinascimentale egli studia e metabolizza le grandi opere di un passato più o meno recente: di sezione in sezione, scopriamo citazioni – a volte palesi, altre raffinatamente celate – di Matisse, Picasso, Pollock, dell’epoca egizia, greco-romana mesopotamica, precolombiana. Spazio inoltre a riferimenti contemporanei, ad Andy Warhol su tutti: nell’opera Andy Mouse (1985), associando l’immagine del celebre artista dalla zazzera bianca a Topolino, il simbolo per antonomasia della società consumistica, Keith Haring lo accusa esplicitamente di aver trasformato il proprio nome in un brand, riducendo il piacere di fare arte a mero busines.
Haring si sente cittadino del mondo, con radici che si espandono sotto tutta la crosta terreste: Gianni Mercurio, nella sezione Etnografismo, tra maschere tribali, divinità serpente e animali policromi, ricorda come lo stesso Haring affermi “Mi interessano le immagini azteche perché assomigliavano ai miei disegni e mi interessavano le cose africane e degli indiani d’America perché ci vedevo il mio riflesso”. Archetipi, miti e icone ci porta invece nella vecchia Europa: in questa sezione troviamo esposta la lupa capitolina assurta a simbolo della maternità ed una bizzarra creatura con piume e zampe da uccello, identificata dai critici con l’arpia. L’arpia è animale mitologico foriero di sventura e il dipinto – accostato ad un vaso in ceramica del VI sec. a. C. riproducente lo stesso soggetto – risalente al 1989, ultimo anno di vita dell’artista, anche a causa dello sfondo azzurro polvere tempestato da gocce di pioggia, lascia supporre sia stato realizzato in un fase di sconforto dovuto all’acutizzazione della malattia.
Bando però alla tristezza: le opere in mostra, grazie all’uso di un linguaggio semplice e colori vivaci, celebrano l’amore, la gioia e la vita. La scelta di non assegnare un titolo alla maggior parte delle sue creazioni consente inoltre a Haring di stimolare la fantasia dell’osservatore, offrendogli un’ampia possibilità di interpretazione. Tuttavia, nella sezione Moderno postmoderno, è possibile ammirare una delle poche opere di cui l’artista fornisce una chiave di lettura: Unfinished painting (1989), il dipinto scelto quale icona della mostra. Della tela Haring sceglie di utilizzare solamente l’angolo in alto a sinistra, realizzando un decoro ispirato dai raffinati arabeschi ammirati durante il recente viaggio in Marocco. La restante parte della superficie, quasi fosse un esempio di action painting, è solcato da rivoli di colore che cola dalla porzione decorata. Il “non finito” è uno dei grandi temi dell’arte, reso sublime da Michelangelo, qui utilizzato quale metafora della vita, non tanto nell’accezione di “interrotta” quanto nell’idea di “senza fine”. All’incalzare della malattia l’artista sente il bisogno di lasciare un messaggio chiaro: “Sento che in qualche modo potrei continuare una ricerca, un’esplorazione che altri pittori hanno iniziato e non sono stati in grado di portare a termine, perché hanno progredito verso altre idee, come anch’io farò, o forse per il crudele semplice fatto della morte”. Ed ancora “Io non sono un inizio, non sono una fine. Sono un anello di una catena. La robustezza della catena dipende dai miei stessi contributi, cosi come dai contributi di quelli che vengono prima e dopo di me”. Questi brani, tratti dal diario di Haring e inseriti da Gianni Mercurio nel catalogo della mostra, dimostrano la lucidità e la consapevolezza con cui l’artista – appena trentenne eppure prossimo alla morte – guardi alla propria opera, conscio che la capacità di restituire in punta di pennello lo spirito della propria epoca lo abbia consegnato all’empireo dell’arte, rendendolo un classico dell’era moderna
Silvana Costa
La mostra continua a:
Palazzo Reale
piazza Duomo, 12 – Milano
fino a domenica 18 giugno 2017
orari: lunedì 14.30-19.30
martedì, mercoledì, venerdì e domenica 9.30-19.30
giovedì e sabato 9.30-22.30
la biglietteria chiude un’ora prima
www.palazzorealemilano.it
Keith Haring
About Art
a cura di Gianni Mercurio
coordinamento scientifico Claudia Beltramo Ceppi
assistente del curatore Marcello Pacella
progetto allestimento Marco Omini con Anna Gherzi
immagine coordinata della mostra RovaiWeber design
progetto grafico e video Cacao Design
progetto illuminotecnico Studio Quintiliano Murano
promossa e prodotta da Comune di Milano-Cultura, Palazzo Reale, Giunti Arte mostre musei, 24 ORE Cultura – Gruppo 24 ORE
con la collaborazione scientifica di Madeinart
con il contributo di Keith Haring Foundation
www.mostraharing.it
Catalogo:
Keith Haring. About Art
a cura di Gianni Mercurio
testi di Gianni Mercurio, Demetrio Paparoni, Marina Mattei, Giuseppe Di Giacomo, Christina Clausen
con una conversazione tra Gianni Mercurio e Lucio Pozzi
GAmm Giunti/24 ORE Cultura, 2017
26 x 28,5 cm; 320 pagine; brossura con alette
prezzo 42,00 Euro, in mostra 35,00 Euro