La mostra in corso a Palazzo Reale di Milano illustra, con gran profusione di capolavori, l’operato delle artiste italiane attive tra XVI e XVII secolo.
Anna Maria Bava con Maria Grazia Bernardini è la curatrice della mostra Van Dyck. Pittore di corte, inaugurata alla Galleria Sabauda di Torino a fine 2018, in cui si racconta come il più conteso pittore del momento, nel corso di una visita in Italia, il 12 luglio 1624 faccia tappa a Palermo per rendere omaggio a Sofonisba Anguissola, ormai anziana e cieca. Un anno dopo, dal disegno schizzato sul taccuino di viaggio, Van Dyck trae il dipinto visibile sino al 25 luglio a Palazzo Reale di Milano nel contesto della mostra Le Signore dell’Arte. Storie di donne tra ‘500 e ‘600 a cura, anche questa volta, di Annamaria Bava insieme a Gioia Mori e Alain Tapié.
Il titolo è corretto poiché sono esposti autentici capolavori, citati in tutti i volumi di storia dell’arte, eseguiti da Signore del calibro di Sofonisba Anguissola, Lavinia Fontana, Artemisia Gentileschi, Fede Galizia ed Elisabetta Sirani a fianco di quelli di Claudia del Bufalo o Lucrezia Quistelli, pittrici di cui si conoscono le sole opere giunte a Palazzo Reale. La casistica è molto ampia così come le discipline in cui le Signore hanno messo a frutto il proprio talento. Una mappa collocata nell’anticamera della mostra illustra come siano attive principalmente in territorio italiano sebbene alcune di esse abbiano consolidato la propria fama al servizio di sovrani stranieri.
Il sottotitolo dell’evento ricorda infine che queste protagoniste dell’arte italiana vivono tra il XVI e il XVII secolo, perimetrando temporalmente il soggetto della mostra ma non a sufficienza per contenere il numero delle selezionate. Sono ben 34 le presenti: una folla che sottrae dignità a ciascuna di esse, riducendone il merito al solo riuscire a farsi largo in un ambito prettamente maschile, talvolta superando in abilità e fama i colleghi uomini. Un’esposizione che – così come l’idea del palinsesto di iniziative dedicate a I talenti delle donne concepito dal Comune di Milano – mortifica più che valorizzare l’essere donna, denunciando sorpresa per le loro capacita ed esibendo le autrici come animali esotici in uno zoo, come un cavallo capace di contare in un circo.
Ciò premesso va riconosciuto ad Annamaria Bava, Gioia Mori e Alain Tapié il merito di un lavoro meticoloso: Le Signore dell’Arte, con i suoi 133 pezzi ripartiti in cinque sezioni, è molto bella.
La prima sezione è dedicata alle Artiste citate da Vasari nel suo celeberrimo Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori, un autentico Who’s who del mondo dell’arte di metà Cinquecento, in tutte le sue accezioni.
Nella prima edizione, datata 1550, Vasari scrive solo di Properzia de’ Rossi (1490 circa/1530). Properzia è la prima scultrice il cui nome sia consegnato alla storia dell’arte oltre che ai libri dei pagamenti della basilica di San Petronio a Bologna per alcuni bassorilievi in marmo. In mostra è proposto lo Stemma della famiglia Grassi (1520 circa), eseguito in forma di gioiello in filigrana d’argento con incastonati a giorno noccioli di pesca intagliati, a testimonianza della perizia nel plasmare e incidere un’ampia gamma di materiali.
Nella seconda edizione delle Vite (1568) Vasari inserisce anche Sofonisba Anguissola (1532/1625) incuriosito dal rapporto epistolare tra il nobile Amilcare Anguissola e Michelangelo riguardo due disegni – presenti con una loro riproduzione perché gli originali sono troppo delicati per essere esposti – vergati dalla maggiore delle sue tre figlie, all’epoca già al servizio dei reali di Spagna. Di quell’esperienza è giunto a Milano il Ritratto dell’infanta Isabella Clara Eugenia (1573 circa) cui sono affiancati autoritratti – da sola e in compagnia delle sorelle – e alcune tele devozionali tra cui una Sacra famiglia (1559) che affascina per la freschezza e la brillantezza dei colori e per l’ambientazione bucolica, tra fiori ed erbe usati sia in senso simbolico sia naturalistico.
A margine si apre una sottosezione dedicata alle Artiste nobildonne a ricordare come all’epoca la pittura sia materia di studio per le giovani aristocratiche, insieme a musica e letteratura, ricorrendo a illustri precettori qualora si rilevasse spiccata predisposizione per la materia: Bernardino Campi istruisce la Anguissola, Tiziano Irene di Spilimbergo (1538/59) – come ricorda il dipinto di Silvestro Lega (1859) – e Alessandro Allori Lucrezia Quistelli (1541/94).
Trova qui collocazione il Telo con divinità planetarie, emblemi e scene religiose (1590 circa) attribuito alla lombarda Caterina Cantoni (1542/1601) ad alludere come anche il ricamo sia considerato una disciplina artistica.
Artiste in convento è il tema della seconda sezione testimone di come, anche in questo luogo rigoroso per antonomasia, la creatività si ritagli ampio spazio. Orsola Maddalena Caccia (1596/1676), figlia del pittore noto come Il Moncalvo, entra nel 1620 con le sorelle tra le orsoline di Bianzé ma cinque anni dopo il padre istituisce al paese natio un monastero per riavere accanto a sé le figlie monache. Orsola Maddalena ne approfitta per organizzare il lavoro delle consorelle attorno alla sua officina pittorica da cui escono, per esempio, la serie delle Sei Sibille, la Natività di San Giovanni Battista (1630/40 circa) e l’Allegoria mistica (Amore Langueo) (1635 circa) in mostra a Milano.
Afferiscono a questa sezione pure i due Anfionari miniati da Plautilla Nelli (1524/88), consacrata all’ordine domenicano, due copie di Sette armi spirituali, la guida spirituale per le consorelle scritta e miniata dalla clarissa Caterina Vigri (1413/63) – canonizzata nel 1712 da papa Clemente XI –, e un imponente Ritratto dell’imperatrice Eleonora Gonzaga (1622) eseguito da Lucrina Fetti (1595/1651), sorella del pittore Domenico, entrata nel convento mantovano di Sant’Orsola grazie alla dote versata a suo nome dal duca Ferdinando Gonzaga che, da quel momento, la elegge ritrattista di corte.
La terza sezione intitolata Storie di famiglia affronta la casistica delle “figlie d’arte”, talenti cresciuti nella bottega paterna, talvolta arrivati a superare in fama il genitore. Ne sono un esempio le felsinee Lavinia Fontana (1552/1614) ed Elisabetta Sirani (1638/65), figlie rispettivamente di Prospero che si divide tra Bologna, la corte di papa Giulio II, Genova, Firenze e Fontainebleau e Giovanni Andrea, prima assistente di Guido Reni e successivamente pittore in proprio e mercante d’arte.
Lavinia affascina i visitatori con eleganti autoritratti in cui si propone quale raffinata “donna di palazzo”, colei che deve “avere notizie di lettere, di musica, di pittura” come indica Baldassar Castiglione nel libro del Cortegiano (1528). In realtà le nozioni di pittura Lavinia le mette ampiamente a frutto e davanti al suo cavalletto posano uomini di scienze, umanisti e nobili che le commissionano straordinarie scene sacre per invocare la protezione della Vergine sul casato quali la Pala Gnetti (1599) che domina e illumina come un raggio di luce dal cielo tutta la sala di Palazzo Reale. Sono tuttavia i ritratti immaginari delle eroine dell’antichità – dee dell’Olimpo, figure bibliche o protagoniste della Roma imperiale – a conquistare il pubblico con le loro storie di integrità, valore e dignità che non vengono meno nemmeno nell’affrontare la morte. Donne virtuose e coraggiose dal cui esempio le Signore traggono forza e coraggio per affermare il proprio talento: Galatea e amorini cavalcano le onde nella tempesta su un mostro marino (1590 circa), Cleopatra (1595 circa) che fissa l’aspide negli occhi o Giuditta e Oloferne (1595 circa) – entrambi soggetti ricorrenti in quei secoli – di grande impatto scenico, con i filamenti dorati della veste che, al fioco bagliore di una fiaccola, brillano nel buio della notte dando luce all’intera composizione.
Troviamo identica commistione di generi e pari forza comunicativa nel lavoro di Elisabetta Sirani che i curatori mettono a confronto con il padre nel cimentarsi con il soggetto di Venere e Amore (1645 e 1664), operazione ripetuta anche con Rosalia e Pietro Novelli riunendo e ponendo in dialogo, una di fronte all’altra, Madonna Immacolata e San Francesco Borgia (1663) e Sposalizio della Vergine (1647), due pale d’altare appartenenti a due differenti chiese palermitane.
Altra stella di prima grandezza che trova spazio in questa sezione è Fede Galizia (1574/1630), figlia di Nunzio – versatile artista trentino attivo per un certo periodo a Milano – formatasi nella bottega paterna e perfezionatasi studiano i lavori di Lomazzo, Figino, Peterzano e Correggio. È amica dell’Arcimboldo che la introduce alla pratica della natura morta: in mostra sono presenti tre esempi di tale genere, accostati a San Carlo in abito penitenziale con la croce e il Sacro Chiodo (1615 circa) e Giuditta con la testa di Oloferne (1601).
Prendendo a pretesto quest’ultimo dipinto non possiamo che lodare la minuzia con cui le Signore dell’arte si spendono nel riprodurre nei minimi dettagli i pregiati tessuti degli abiti indossati dalle protagoniste delle loro opere: le sete cangianti, la tridimensionalità dei broccati, gli intrecci dei pizzi. Analoga attenzione è riservata alle acconciature e ai gioielli, alcuni, come quelli di cui si adorna Faustina del Bufalo per il ritratto eseguito nel 1604 dalla sorella Claudia – unico suo dipinto recante la firma –, sono pezzi di epoca romana presi in prestito dalla collezione di famiglia.
Una sala è destinata a Margherita (1648/1710), Francesca Vicenzina (1650/1700) e Giovanna Vicenzina (1652/80), le figlie del pittore Vincent Voulot, italianizzato in Vincenzo Volò, tutte specializzate nel genere dei fiori da cui il titolo della sottosezione: Le fioranti. Le opere esposte alternano sontuose coppe ricolme di fiori – eseguite da Margherita, la fiorante purista, la più celebre delle sorelle, moglie del pittore Ludovico Caffi – a composizioni di fiori con frutta, ortaggi e animali o quali cornici di scene sacre come proposto da Giovanna Vicenzina.
La sezione conta inoltre dipinti di Marietta Robusti (1554/90), figlia di Tintoretto e per questo soprannominata Tintoretta, di Chiara Varotari (1584/1663) sorella di Alessandro noto come Il Padovanino, di Anna Stanchi (metà del XVII secolo) verosimilmente parente di Giovanni Stanchi e di Elisabetta (seconda metà del XVII secolo), moglie dell’orefice Sante Marchioni, figura ancora avvolta da mistero.
Le Accademiche è il titolo della quarta sezione che narra come le artiste, grazie al proprio talento e a grande impegno, riescano ad essere ammesse nelle associazioni riservate a pittori, scultori e architetti, vedendo così sancito il proprio status professionale. L’antesignana è Diana Scultori (1547/1612), figlia di Giovanni Battista de Spinchieris, collaboratore di Giulio Romano nei cantieri mantovani, che la avvia alla pratica dell’incisione. Se valutiamo le date è impossibile che la Scultori sia allieva diretta di Giulio Romano, deceduto nel 1546, ma quella sua “nuova e stravagante maniera” – come la descrive affascinato il Vasari – segna indelebilmente almeno un paio di generazioni di artisti, mantovani e non solo. Nelle incisioni di Diana Scultori selezionate per la mostra di Milano ritroviamo l’allure degli eroi mitologici di Palazzo Te che si dimenano nella lotta con lo stesso movimento circolare che caratterizza l’andamento delle colonne tortili utilizzate con gran profusione a Mantova da Giulio Romano. Se in Achilles defuctus, combattimento intorno al corpo di Patroclo (1570 circa) ritroviamo l’artista manierista formatosi alla bottega di Raffaello, in La continenza di Scipione (ante 1575) si coglie la maestosità dei monocromi e dei Trionfi di Cesare di Andrea Mantegna, altro imprescindibile Maestro del Rinascimento attivo a corte Gonzaga. Diana Scultori nel 1580 entra a far parte della Compagnia di San Giuseppe di Terrasanta, istituzione oggi nota con il nome di Accademia dei Virtuosi.
Nella quarta sezione della mostra attirano l’interesse dei visitatori anche le numerose pergamene dipinte con la tecnica del guazzo da Giovanna Garzoni (1600/70). La pittrice vi riproduce con grande sensibilità illusionistica diverse tipologie di piante, fiori, frutti, ortaggi, animali e insetti. Tale abilità la rende nota e apprezzata già dai suoi contemporanei; trasferitasi ancora adolescente alla corte di Maria Maddalena d’Austria, granduchessa di Toscana, stringe lì un legame particolare con Artemisia Gentileschi e con lei viaggia negli anni seguenti tra Venezia, Napoli e Londra.
Il sodalizio artistico tra le due donne non è scisso nemmeno da BC Progetti, progettisti dell’allestimento di Le Signore dell’Arte, che usano le tempere della Garzoni per marcare il percorso verso la quinta e ultima sezione dell’esposizione: Artemisia Gentileschi “valente pittrice quanto mai altra femmina” come la definisce Filippo Baldinucci in Notizie del disegno da Cimabue in qua, una sorta di ampliamento e prosecuzione del lavoro di Vasari, pubblicato a partire dal 1681.
Figlia del pittore Orazio Lomi Gentileschi, Artemisia (1593/1654), dotata di tanto talento quanta ambizione, si trova ben presto a rivaleggiare con pittori già affermati per contendersi i clienti più prestigiosi. In mostra sono presenti una mezza dozzina di tele che testimoniano la maestria con cui fa propria la lezione di Caravaggio, dominando l’originaria tensione drammatica con una sensibilità e una grazia tutta femminile.
A chiudere la sezione e, con essa, l’esposizione è posizionata un’autentica chicca: la versione di Maria Maddalena realizzata nel 1630/31, un’opera inedita concessa in prestito dalla famiglia Sursock, una delle più nobili e antiche del Libano. La tela verrà restaurata al termine dell’evento e al momento si presenta con le vistose lacerazioni riportate nel corso dell’esplosione al porto di Beirut del 4 agosto 2020. Tale scelta dei curatori, come a chiudere un cerchio, si riconnette alla Pala della Madonna dell’Itria (1578) di Sofonisba Anguissola restaurata in occasione della mostra grazie alla collaborazione del Museo civico Ala Ponzone di Cremona e collocata in apertura, a lasciar presagire con la sua magnificenza quali capolavori attendano il pubblico nelle sale seguenti.
Terminata la visita, lungo il percorso di uscita da Palazzo Reale, è giusto soffermarsi dinnanzi al Ritratto di Lady Venetia Digby come allegoria della Prudenza (1633/34) di Antoon Van Dyck, appeso nella penombra dell’Anticamera di sinistra del piano nobile di Palazzo Reale nell’indifferenza generale. Oltre all’avvincente storia della sfortunata protagonista e alla ricchezza di elementi simbolici, la tela risulta interessante da confrontare con quelle delle Signore dell’arte italiana. Un mezzo per comprendere – o meno – le ragioni della fama del ritrattista fiammingo, attivo alla corte di re Carlo I Stuart in contemporanea con Artemisia Gentileschi, lui sì ritenuto degno di esposizioni tutte sue.
Conclusa la visita è il momento di un bilancio.
A differenza di una mostra che indaga l’evoluzione artistica di un autore o di un movimento questa è alla fine una rassegna generalista in cui, solo tangenzialmente, si assiste al fluire dal Rinascimento al Barocco attraverso il lavoro di 34 artiste italiane. Tante, decisamente troppe, e si esce frastornati dalle informazioni ricevute dalle didascalie, dalle audioguide e pure dai video proiettati in quasi ogni sala, a creare un fastidioso effetto di cacofonia che finisce per disturbare la visione, soprattutto ora che le severe norme anti Covid limitano il flusso del pubblico e potrebbero trasformare la visita in un’esperienza intimista.
Servono tra l’altro non meno di un paio di ore per esplorare la mostra con calma, per scoprire le artiste e le storie dietro le loro opere.
Un’esposizione concepita come Le Signore dell’Arte. Storie di donne tra ‘500 e ‘600 ottiene l’esito di dimostrare che ciascuna delle Signore proposte è una stella e, in quanto tale, meriterebbe di brillare da sola, approfondendone la formazione, il lavoro, l’eredità e quelle altre cose che si fanno per i colleghi di sesso maschile. Non illudiamoci troppo che ciò possa accadere a breve: Milano, la città che si propone a emblema del progresso italico, solo recentemente sembra essersi accorta che, a eccezione delle statue dedicate alla Madonna e alle sante, su 121 sculture che adornano gli spazi pubblici nessuna raffigura una delle innumerevoli donne che nei secoli le hanno dato lustro in campo artistico, scientifico e politico.
Silvana Costa
La mostra continua a:
Palazzo Reale
piazza Duomo, 12 – Milano
fino a domenica 22 agosto 2021
per le modalità di ingresso si veda il sito web
www.palazzorealemilano.itLe Signore dell’Arte
Storie di donne tra ‘500 e ‘600
a cura di Annamaria Bava, Gioia Mori, Alain Tapié
progetto di allestimento BC Progetti di Alessandro Baldoni e Giuseppe Catania
con Francesca Romana Mazzoni
lighting designer Francesco Murano
progetto immagine coordinata e grafica di mostra Angela Scatigna
una mostra Comune di Milano – Cultura, Palazzo Reale, Arthemisia
www.lesignoredellarte.it
Catalogo:
Le Signore dell’Arte
Storie di donne tra ‘500 e ‘600
a cura di Annamaria Bava, Gioia Mori, Alain Tapié
Skira, 2021
22 × 28 cm, 240 pagine, 250 colori, cartonato
prezzo: 32,00 euro
www.skira.net