Il nuovo allestimento della collezione permanente del MUDEC esplora le origini del fenomeno della Milano globale e offre una realistica istantanea della contemporaneità.
Nel 2015 dopo un’accesa polemica con David Chipperfield, l’archistar britannica che ne ha firmato il progetto, a Milano nell’ex area Ansaldo si inaugura il MUDEC – Museo delle Culture, concepito per riunire le collezioni etnografiche sino a quel momento sparpagliate tra le varie raccolte civiche.
Il 17 settembre 2021 MUDEC presenta il nuovo allestimento della collezione permanente, proponendo al pubblico una rassegna di oggetti completamente rinnovata, attingendo ai circa 7.000 pezzi custoditi nei depositi, accumulati nel tempo dal Comune di Milano grazie a lasciti e donazioni di privati. Milano Globale. Il mondo visto da qui è il tema che guida il racconto proposto dal comitato scientifico presieduto da Anna Maria Montaldo, direttrice del museo, e coordinato da Carolina Orsini. Un racconto che si snoda attraverso 510 oggetti, in gran parte restaurati per l’occasione: le ricche didascalie che li accompagnano ne descrivono le origini ma pure come siano giunti sino a Milano, consentendo al pubblico di contestualizzarli all’interno di una collezione composta vuoi per stupire gli ospiti – si pensi alle Wunderkammer –, vuoi per esigenze professionali, vuoi con ricordi di viaggio o cimeli di guerre combattute in terre lontane. Questi ultimi due generi sono probabilmente i più interessanti perché esplorano le origini del processo che ha portato Milano a essere oggi un nodo nevralgico della rete di scambi di persone, merci e saperi a scala mondiale.
Le prime tre sezioni del percorso di visita rievocano le missioni dei milanesi nelle Americhe, in Asia e in Africa; la quarta sezione analizza i flussi migratori confluiti sulla metropoli a partire dal secondo dopoguerra mentre la quinta raccoglie infine alcune opere di artisti discendenti dagli immigrati di origine africana. Un percorso che parte dal concetto di imperialismo – che si vorrebbe ormai archiviato ma siamo consci purtroppo non sia così – per giungere a quello contemporaneo di globalizzazione che, come dimostrano le creazioni presenti nell’ultima sezione, non implica uniformarsi a uno stereotipo quanto salvaguardare con orgoglio l’essenza della propria identità, in parte africana, in parte italiana.
Il problema della tutela della propria identità se lo devono essere posti anche gli abitanti del Ducato di Milano quando nel 1535, alla morte senza eredi di Francesco II Sforza, si apre la diatriba tra Francesco I re di Francia e l’imperatore Carlo V, formalmente conclusasi solo nel 1559 con la Pace di Cateau-Cambrésis che ratifica la vittoria del secondo. L’annessone all’impero, per quanto dolorosa, consente tuttavia l’accesso alla maggiore potenza navale dell’epoca e, con essa, la possibilità di organizzare spedizioni commerciali in ciascuna parte del mondo allora nota. Con le merci arrivano in città anche esotiche curiosità, inevitabilmente contese dai nobili per le proprie collezioni: il cardinale Federico Borromeo apre nel 1609 una biblioteca fornita di testi internazionali mentre Manfredo Settala dà vita alla più ricca raccolta della Milano seicentesca di cui in mostra è possibile ammirare i 70 elementi superstiti grazie al prestito concesso dalla Veneranda Biblioteca Ambrosiana.
Tra le merci importate da oltreoceano non vanno scordati caffè e cioccolata che in breve tempo si guadagnano un ruolo di primo piano nell’alimentazione e nella vita sociale dei milanesi: una mappa riporta le quasi 120 drogherie e fabbricanti di cioccolata presenti in città a inizio XIX secolo; a fianco le raffinate chicchere messicane (XVII secolo) accostate a preziosi servizi in porcellana cinese, ideati per il consumo di caffè e cioccolata, creano un ponte tra la sezione dedicata alle Americhe e quella sull’Asia.
Nelle vetrine di questa prima sezione fanno bella mostra di sé pregiati esemplari della produzione delle civiltà precolombiane, dalle origini all’arrivo degli europei (4.000 a.C./1.600 d.C.), a evidenziare l’alto livello tecnico raggiunto nella lavorazione tanto della terracotta quanto dei metalli. Tale rassegna fa da doverosa premessa all’elenco di razzie, distruzioni, stermini e sfruttamento di persone e risorse messo in atto dai conquistadores di cui i curatori, per ovvi motivi di spazio, citano solo gli episodi più celebri.
La seconda sezione è dedicata alle merci importate in Europa dalle Compagnie delle Indie, compagnie di navigazione private, a forte ingerenza statale, cui aderiscono anche i milanesi Giulio Visconti Borromeo Arese e Pietro Proli. Tra le merci più richieste ci sono i preziosi servizi per la tavola commissionati in Cina dalle famiglie nobiliari, con impresse le insegne del casato. I curatori della mostra descrivono quindi i grandi impianti produttivi messi appositamente in piedi nella regione di Jimgdezhen: i passaggi del processo di trasformazione dell’argilla in porcellana, “l’oro bianco”, restano infatti un segreto custodito con estrema cura per secoli – almeno sino a inizio Settecento – da Cina, Corea e Giappone.
Nella sezione è riservata una posizione di rilievo alle “cineserie”, oggetti di lusso prodotti in Europa ispirandosi a modelli, tinte e soggetti orientali: servizi in porcellana per la tavola ma pure oggetti d’arredo, carta da parati, accessori per l’abbigliamento e la meravigliosa portantina con gli interni rivestiti in seta e gli esterni decorati con immagini di una Cina fiabesca.
Dall’India giungono invece tessuti in cotone, lana e seta finemente colorati e stampati tra cui gli scialli cachemire, nati come indumenti maschili e trasformati da Joséphine Beauharnais in accessori indispensabili per le signore ottocentesche.
Il resoconto delle attività della Società d’esplorazione commerciale in Africa, fondata da imprenditori milanesi nel 1879, apre la terza sezione dell’esposizione. Alla spedizione esplorativa in Abissinia partecipa anche Giuseppe Vigoni, futuro sindaco di Milano: è per lui un’esperienza emozionate e toccante al punto da indurlo a promuovere una colonizzazione commerciale pacifica del Continente Nero.
Tale auspicio è disatteso: da sempre le nazioni europee trovano più conveniente sostituire la politica di imperialismo commerciale adottata in Asia con un approccio violento di tipo militare. Si passa gradualmente dal rastrellamento degli abitanti delle aree costiere da inviare come schiavi nelle colonie oltre Atlantico a una penetrazione nelle zone interne alla ricerca di materie prime. Anche in questo caso si assiste alla sottomissione violenta delle popolazioni indigene, basata su ideali razzisti oggi non ancora del tutto debellati, fatta passare ipocritamente come opera di civilizzazione e conversione delle tribù locali.
La sezione offre un resoconto dell’epopea italiana in Africa, da quando nel 1882 lo Stato acquista dalla Società di Navigazione Rubattino la baia di Assab in Eritrea alla Guerra d’Etiopia promossa dal regime fascista nel 1935/36. In mostra troviamo accostati idoli pagani alla paccottiglia in dotazione ai missionari, abiti e copricapi dei dignitari locali alle divise dei militari, le vestigia di una società raffinata alla propaganda fascista che punta a condizionare il pensiero degli italiani, bambini inclusi.
La gigantografia di Immigrato sardo davanti al Grattacielo Pirelli, l’iconica fotografia scattata da Uliano Lucas nel 1968, accoglie i visitatori all’ingresso nella quarta sezione. Da oltre mezzo secolo questo ritratto a un uomo appena sceso dal treno alla Stazione Centrale, incamminato per la città con la sua valigia di cartone alla ricerca di alloggio e lavoro, sintetizza efficacemente il fenomeno dei flussi migratori interni italiani negli anni del boom economico. In vent’anni la sola popolazione del capoluogo aumenta di oltre 450.000 unità mentre un incremento ancora maggiore si registra nei centri industriali della prima fascia metropolitana.
Nei decenni seguenti si assiste a nuove e differenti ondate migratorie con origine sia nei Paesi dell’Est europeo, una volta caduti i regimi di matrice socialista, sia in Estremo Oriente sia nell’Africa subsahariana.
In questa sezione attirano l’attenzione i Ritratti africani (2004), con cui Alan Maglio coinvolge famiglie di immigrati del giorno d’oggi nel ricreare le pose di fotografie d’epoca, e Il vecchio e la bambina (2020) di Cristina Donati Meyer, una riproduzione in scala della scultura dedicata a Indro Montanelli ai giardini di via Palestro cui pone in braccio una bambina di colore. L’opera non vuole ergersi solamente a memoria dell’episodio di cui Montanelli non si è mai pentito ma, in senso lato, denuncia l’approccio violento adottato dai colonizzatori italiani – militari e no – in Eritrea così come in Etiopia, Somalia, Albania e Libia.
L’ultima sezione indaga cosa implichi essere oggi un afrodiscendente a Milano. Protagoniste sono le opere create da chi è nato in città da genitori africani di prima o seconda generazione o da coppie miste, da chi è nato in Africa ed è arrivato in Italia con i propri genitori o perché adottato.
Opere che tramettono il desiderio impellente degli autori di lasciare traccia di sé nella metropoli in cui sono nati, cresciuti o anche solo in transito. Opere che raccontano la necessità di distinguersi dalla massa per il proprio talento e non per la tonalità della melanina, l’orgoglio per la terra dove affondano le radici famigliari e il disagio di dover continuatamente rivendicare la propria italianità come sottolinea il rapper Tommy Kuty in #AFROITALIANO:
Ho la pelle scura, l’accento bresciano
Un cognome straniero e comunque italiano
A volte mi sembra di esser qui per sbaglio
Sanno poco di me, son loro bersaglio
Ciò che ho passato loro non lo sanno
E il mio passato mai lo capiranno
Mi dai del negro, dell’immigrato Il tuo pensiero è un po’ limitato
Il mondo è cambiato, non è complicato
“Afroitaliano” per te è un rompicapo
Non sanno chi siamo in questo Stato
Mi vuoi lontano, ho letto il tuo stato
Chi non ci vuole vede solo il colore
La nostra nazione sta scritta nel cuore
[…]
Afroitaliano, perché sono stufo di sentirmi dire cosa sono o cosa non sono
Sono troppo africano per essere solo italiano e troppo italiano per essere solo africano
Afroitaliano, perché il mondo è cambiato
Perché siamo immersi in una società globale e serve adeguarsi per non esserne espulsi.
Silvana Costa
La mostra continua a:
MUDEC – Museo delle Culture
via Tortona 56 – Milano
fino a domenica 13 febbraio 2022
orari: lunedì 14.30 – 19.30
martedì, mercoledì, venerdì, domenica 9.30 – 19.30
giovedì, sabato 9.30 – 22.30
la biglietteria chiude un’ora prima
www.mudec.it
Milano Globale
Il mondo visto da qui
comitato scientifico presieduto da: Anna Maria Montaldo
coordinatrice Carolina Orsini
membri Anna Antonini, Ivan Bargna (assistito da Giovanna Santanera), Giorgia Barzetti, Simona Berhe, Carolina Orsini, Giorgio Riello, Alberto Rocca, Luca TosiCatalogo:
Milano Globale
Il mondo visto da qui
24 ORE Cultura, 2021
15 x 22,5 cm, 343 pagine, brossura
prezzo 25,90 Euro
www.24orecultura.com