Quelle solide radici

gatto-volpe-e-pinocchio_foto-filippo-brancoli-panteraTorna il Teatro del Carretto, riportando Pinocchio sul palcoscenico del Giglio di Lucca.

Si parla spesso di teatro d’avanguardia. Per inciso, si parla d’avanguardia un po’ per ogni ambito creativo – musica, moda, una tela d’artista. Tutto ciò ch’è destinato a trovarsi su di uno spazio rialzato diventa vittima della corsa al futuro, all’inaspettato. Si arriva allo scheletro per smontarlo, per aggiungere arti di troppo, per creare mostri – in latino il monstrum è il prodigio.  Si reagisce così alla minaccia di quella tremenda etichetta, sempre pronta ad abbattersi sull’opera, stroncandola: “superata”.
E poi c’è l’arte senza tempo, le cui radici sono ben salde. Spettacoli sempreverdi, che hanno scarnificato la propria natura, fino a trovarne la formula bruta, sempre riproducibile, su cui basare  le produzioni future. Opere che non inseguono le correnti del tempo, ma s’impongono su di esse, come fa il sasso nel fiume, rimanendo fedeli a se stesse. In tre parole: Teatro del Carretto.
Nel dicembre del 2017, il sipario del Teatro del Giglio si apre su di un classico che conosciamo bene, nonché produzione emblematica del 2009 della Compagnia toscana, formatasi nel lontano ’83, e che proprio nella città delle Mura è residente.
Abbiamo a che fare con un’attività creativa ormai strutturata, con una serie di caratteristiche che si ripercuotono in ogni progetto, rendendone la mano immediatamente riconoscibile.
Innanzitutto il gusto per la favola, intesa come mito immortale. Da sempre il Teatro del Carretto gioca sulle grandi storie della tradizione occidentale, da Shakespeare a Omero, per non parlare di Biancaneve, che fu il manifesto di debutto, più di trent’anni fa. Esse, come nello spirito del teatro greco, sono portate in scena e presentate come uno specchio, nel quale lo spettatore può riconoscere se stesso. E cos’è mai Pinocchio (un disinvolto Giandomenico Cupaiuolo), se non la sprovvedutezza dell’uomo e della donna contemporanei, assillati da una valanga di raccomandazioni e doveri, costantemente solleticati dall’indolenza e dalla tentazione? E l’ingresso della fiaba di Collodi nel ricettario del mito è suggellato dalle prime scene, che catapultano già il personaggio tra le marionette di Mangiafoco, donandogli fin da subito l’immortalità del palcoscenico.
Altro carattere-firma si trova nella natura artigianale delle scene, nel gusto per la maschera, qui ancor più calzante, trattando di burattini. Quell’amore per il manufatto che si è concretizzato ne Le Stanze del Sogno, sorta di mostra/deposito in cui la Compagnia espone il concreto delle sue scenografie più celebri. Un mondo di attori dalle movenze legnose, di corpi umani e artificiali che si mescolano gli uni agli altri, da spettacolo a spettacolo, fino a non capire più chi sia fasullo, chi reale: a inizio spettacolo, in media res, si ha l’ammaestratore del circo – che indossa una maschera nera – intento a fustigare il trasfigurato Pinocchio. Per contro, lo sventurato protagonista, senza canottiera e con le gambe nude, risulta incredibilmente più uomo dell’essere umano vero e proprio.
La dialettica tra artificio e natura, che tocca l’estremo in opere come l’Iliade e il suo uomo-macchina, gioca a cristallizzare l’intero spettacolo in una sorta di carosello, come a voler ribadire il proprio essere tutto finto: ripetitivo l’uso del motivetto da teatrino di paese, così come i brani noti del melodramma, quali il Vesti la Giubba di Leoncavallo e il pucciniano O mio babbino caro, qui scelto ad hoc per sottolineare l’ossessiva esclamazione di Pinocchio («Babbino… babbino mio…»), che a lungo andare, in pieno stile “carrettiano”, perde di senso logico e diventa una sorta di nenia ritmica, musicale, sullo spirito di certe poesie di estetismo decadente.
A un copione essenzialmente fedele al libro – escluse le numerose scene che ci arrivano, non vissute, ma narrate a posteriori dal protagonista – si accompagna una scenografia povera, fatta di quinte in compensato, anch’esse di gusto artificioso, volte a ricreare l’atmosfera del teatrino paesano, attraverso le quali i personaggi entrano ed escono ininterrottamente. Luci crude e colori realistici, da pellicola neorealista, con possibili collegamenti con la celebre interpretazione filmica di Luigi Comencini. E per chi ha potuto assistere allo spettacolo dalla galleria, la possibilità di ampliare la sensazione dell’artificio, vedendo il via vai degli attori intenti a cambiarsi. Non che rientrasse negli intenti della produzione, ma la combinazione è stata felice.
Un plauso particolare va a Elsa Bossi e al suo stile strettamente personale, che applica sistematicamente a tutti i personaggi che interpreta, caricandoli di quella verve profonda e al contempo grottesca, a tratti scimmiesca – e alla scimmia si pensa, vedendo la Fata Turchina arrampicarsi sulla corda per liberare Pinocchio appeso per i piedi. Difatti, anche l’esasperazione del gesto e della mimica, forse anch’essi in ripresa di quello che si ritiene fosse la primitiva interpretazione dei greci, è un ennesimo fondamento di questa longeva Compagnia, che ha presentato alla Biennale di Venezia proprio Pinocchio, assieme all’ormai storica Biancaneve e alle Mille e una Notte, produzione degli ultimi anni.
Si parla spesso di teatro d’avanguardia, all’inseguimento di un futuro da gettarci in faccia. E poi arrivano loro, con un dono dato spesso per scontato, sebbene essenziale. Le nostre radici.

Sharon Tofanelli

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Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro del Giglio
piazza del Giglio, 13/15 – Lucca

venerdì 15 dicembre e sabato 16 dicembre, ore 21.00; domenica 17 dicembre, ore 16.00
www.teatrodelgiglio.it

Pinocchio
da Carlo Collodi

con Giandomenico Cupaiuolo, Elsa Bossi, Giacomo Pecchia, Giacomo Vezzani, Elena Nenè Barini, Nicolò Belliti, Jonathan Bertolai e Carlo Gambaro
adattamento e regia Maria Grazia Cipriani
scene e costumi Graziano Gregori
suono Hubert Westkemper
luci Angelo Linzalata
produzione Teatro Del Carretto
www.teatrodelcarretto.it