Una mostra al Museo del Novecento racconta il contributo di Remo Bianco alla vita artistica e culturale del Secondo Dopoguerra in Italia. Un viaggio nella sperimentazione di materiali e tecniche inseguendo la necessità di preservare la memoria delle piccole cose.
Al Museo del Novecento di Milano sono esposte oltre quattromila opere rappresentanti le principali correnti artistiche italiane sviluppatesi nel corso del XX secolo. Alla collezione principale già da un po’ di tempo si è scelto di affiancare piccole mostre temporanee, destinate a far conoscere al grande pubblico figure poco note ma pur sempre tessere importanti del mosaico storico-artistico del nostro Paese, sia si tratti di sperimentatori arditi scivolati nel dimenticatoio o di creativi celebri solo a livello locale.
Per tutta l’estate, fino a domenica 6 ottobre, nella sala degli archivi del museo è ospitata Remo Bianco. Le impronte della memoria, mostra a cura di Lorella Giudici. Il titolo già suggerisce come il percorso si articoli seguendo il sottile filo rosso sentimentale che lega le diverse tappe della produzione dell’artista meneghino, contraddicendo il suo tentativo di dar vita a composizioni fredde e cerebrali.
Bianco nasce nel 1922 in un quartiere popolare, nel cuore del centro storico milanese, cui resta legato per tutta la vita mantenendovi, nonostante il successo, le amicizie e lo studio. Alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, allievo ai corsi serali dell’Accademia di Brera, incontra Filippo De Pisis: il Maestro lo prende sotto la propria ala protettrice per introdurlo al mondo dell’arte. De Pisis, ormai al termine della carriera, è celebre per ritratti ad alto coefficiente scenografico, in cui i colori polverosi e i tessuti impalpabili conferiscono all’insieme l’aspetto etereo del ricordo che sfuma nel tempo. Remo Bianco assorbe questo interesse per la memoria e lo rielabora in chiave personale, più concreta: affida gli episodi importanti al cuore e crea ispirato dai ricordi degli istanti fugaci.
Nell’Italia uscita dalla guerra, piena di speranze ed energie, Remo Bianco entra in contatto con numerosi artisti ma, pur attraversando mondi e correnti, resta fedele a sé stesso, perseguendo un percorso di ricerca che, sebbene lo porti a sperimentare differenti tecniche espressive, nel lungo periodo si dimostra estremamente coerente. Le impronte della memoria si apre con i Collage per chiudersi con i celeberrimi Quadri Parlanti e tocca le tappe fondamentali del lavoro di Remo Bianco: oltre 70 opere raggruppate in sezioni arricchite da fotografie, cataloghi e manifesti che testimoniano l’estrema attualità del linguaggio utilizzato e l’audace partecipazione alla vita culturale negli anni del boom economico.
Osservando i due grandi Collage (1956 e 1965) che accolgono il pubblico in visita si percepiscono echi dell’Action painting di Jackson Pollock: nel 1955, un anno prima della morte del pittore statunitense, Bianco va a New York per incontrarlo e approfondire la filosofia alla base dell’Espressionismo astratto. Al rientro ricopre anch’egli le tele con fili di colore ma, ritenendo le opere troppo cariche di energia creativa per uno che vuole fare un’arte razionale, le taglia in rettangoli e quadrati per ricomporle mischiando i pezzi tra loro. Ogni tassello diviene così parte di un tutto più ordinato e rigoroso.
I Collage sono anche utilizzati come rivestimento di alcune delle Pagode protagoniste della mostra svoltasi al Lido di Venezia nel 1961, capaci di affascinare Giorgio De Chirico. L’ispirazione per queste strutture arriva durante un lungo viaggio in Persia e, sebbene descritte dai critici come una costruzione a metà via tra un minareto e un campanile, suggeriscono più banali rimandi al Monumento alla Terza Internazionale di Tatlin piuttosto che ai castelli di carte.
Le carte o, meglio, i tarocchi che la madre legge ai vicini di casa in cambio di verdura, uova e qualche pollo che le consentono di far quadrare lo scarno bilancio famigliare, sono i protagonisti dei Tableaux Dorés, superfici enormi, monocrome, nate del 1957. L’oro per Remo Bianco è un elemento ricco di significati: è per esempio un simbolo alchemico, un rimando alla magia di mondi misteriosi e sconosciuti piuttosto che l’evocazione dei preziosi decori orientali. Il tempo erode le preziose lamine dorate, giunte a noi graffiate e consumate, così come i ricordi o i piccoli oggetti sfuggiti di mano. Oggetti che Bianco ritrova abbandonati nei cortili, li raccoglie, li protegge insacchettandoli meticolosamente e infine dispone quei Sacchettini su un pannello, seguendo il ritmo dei coevi Tableaux Dorés.
Sono molti in realtà i metodi utilizzati da Remo Bianco per preservare le cose e in mostra sono presenti esempi delle sue sperimentazioni. Ci sono le Sculture neve risalenti a metà degli anni Sessanta: delicate composizioni spruzzate di neve artificiale, una nuova sostanza utilizzata come una sovrastruttura ripetuta e riconoscibile per uniformare forme, fatture e materiali di oggetti diversi tra loro, conferendo inoltre alle sculture la magia e la dolcezza che la neve porta con sé.
Ci sono le Impronte ottenute coprendo le cose e le persone con una colata di gomma o con carta bagnata per tramandarne le sagome nel tempo e mostrarle quali vestigia di un’antica cultura. Nel Manifesto dell’arte improntale l’artista dichiara che “le mie Impronte sono una documentazione universale che catalogherà tutte le cose venute a contatto con me attraverso una realtà ridimensionata della verità attuale”.
Sono in un certo senso impronte – cioè spazi lasciati vuoti da corpi ora assenti – anche gli intagli negli strati di legno sovrapposti delle creazioni 3D, come per esempio il compasso (1965) protagonista, sia aperto sia chiuso, della composizione laccata di bianco e blu. Queste opere dai colori vivaci rappresentano il contributo originale di Remo Bianco alla ricerca di una chiave per la tridimensionalità diversa da quella dei pittori rinascimentali, inserendosi nel dibattito che vede coinvolti, tra gli altri, Agostino Bonalumi, Lucio Fontana, o Paolo Scheggi con cui si notano le assonanze maggiori.
I Quadri parlanti chiudono il percorso di visita alla mostra al Museo del Novecento: si tratta di ampie stampe fotografiche in bianco e nero su tela cui accostarsi per udire la voce profonda e severa di Remo Bianco. L’installazione multimediale consente all’autore di affidare alla memoria del nastro magnetico i propri pensieri e condividerli con le persone – presenti e future – sperando possano essere un’utile chiave di lettura per comprenderne i lavori. Alla luce di quanto udito in molti ritornano infatti a osservare le sculture con una diversa consapevolezza.
Silvana Costa
La mostra continua a:
Museo del Novecento
piazza Duomo 8 – Milano
fino a domenica 6 ottobre 2019
orari lunedì 14.30 – 19.30
martedì, mercoledì, venerdì e domenica 9.30 – 19.30
giovedì e sabato 9.30 – 22.30
il servizio di biglietteria termina un’ora prima della chiusura
www.museodelnovecento.orgRemo Bianco
Le impronte della memoria
a cura di Lorella Giudici
in collaborazione con Fondazione Remo Bianco
progetto d’allestimento Marina Maggiulli
progetto grafico HeartfetCatalogo:
Remo Bianco
Le impronte della memoria
a cura di Lorella Giudici
con un’intervista a Marina Abramović
Silvana editoriale, 2019
17 x 24 cm, 224 pagine, 140 illustrazioni, brossura
edizione bilingue italiano/inglese
prezzo 28,00 Euro
www.silvanaeditoriale.it