Sistemi di visione / Sistemi di realtà: Loris Cecchini, Giovanni Ozzola

IGIOVANNI OZZOLA 2naugurate, sabato 2 aprile, due mostre pensate e volute per far dialogare l’arte con le eccellenze artigianali e produttive del territorio pisano.

L’idea, decisamente interessante, ha portato Loris Cecchini a confrontarsi con il territorio conciario di Santa Croce sull’Arno. Dal confronto tra l’occhio da designer, la materia pelle e gli artigiani della zona (che copre i comuni di Castelfranco di Sotto, Montopoli Valdarno, Santa Croce sull’Arno, Santa Maria a Monte e San Miniato, nella provincia di Pisa, oltre a Fucecchio, nel fiorentino), sono nati una serie di tavoli che recepiscono l’orografia e l’idrografia del distretto, inscrivendoli (in  maniera insieme poetica e fisica) nelle pieghe della pelle conciata, stesa su tavole.

Nella sede espositiva di Villa Pacchiani (dotata di un’illuminazione naturale atta a delineare forme, creare giochi di luci e ombre, e con locali ariosi nei quali sviluppare al meglio i progetti artistici), sono stati messi in mostra anche altri lavori di Cecchini – eccellente designer in grado di dialogare con gli spazi, aprendoli a discorsi di senso poetico, rivolti all’occhio e alla mente del visitatore. Nelle sue installazioni si ritrova il gusto del bianco su bianco à la Fausto Melotti, il monocromo estroflesso di Enrico Castellani, l’arte modulare (di derivazione architettonica) e la fascinazione per la dimensione del murale – che rimanda, da un lato, a un’ipotetica East Side Gallery (congeniale a un artista che viva oggi a Berlino) e, dall’altro, agli antichi affreschi etruschi (vista la lunga frequentazione di Cecchini con la Toscana).
Decisamente interessanti, infine, anche le piccole teche in plexiglass che accolgono e raccolgono (quasi fotografano) i piani di lavoro di Cecchini. Nei contenitori, molto personali, il visitatore può finalmente cogliere la dimensione più intima dell’artista, le sue ossessioni, rintracciando le sue preferenze coloristiche, scoprendo la sua incessante ricerca di una complementarietà tra materiale inerte e materia vivente, tra forma modulare e poetica concettuale. Sebbene studi, o riflessi di una mente al lavoro, questi piccoli esperimenti – pur mancando dell’univocità e della tensione dell’opera d’arte – rivelano la mano dell’artista molto più dell’amaca di vetro (splendido lavoro dell’artigianato artistico di Murano su concept di Cecchini).

La seconda parte della mostra è a Pisa, nello spazio espositivo SMS, magnifico esempio di recupero intelligente e restauro rispettoso dell’ex monastero di San Michele degli Scalzi, firmato dall’architetto Marco Guerrazzi – che ha saputo valorizzare sia gli spazi interni da adibire a sede espositiva che quelli esterni per concerti ed eventi teatrali. Anche se, gli interni, con la loro illuminazione suggestiva e l’imponenza della struttura, potrebbero essere utilizzati da un’amministrazione comunale lungimirante anche per eventi site-specific e teatrali (basti pensare ai drammi medievali, con i luoghi deputati all’azione che potrebbero inscriversi perfettamente nelle dodici sale).
Il secondo artista, Giovanni Ozzola, ha incontrato qui una tra le eccellenze pisane, ossia la IDS, società che sviluppa tecnologie per la produzione di radar. Il lavoro artistico sulla dualità visibile/invisibile si è innestato sulle forme visibili studiate dai tecnici per rendere navi e aerei invisibili all’occhio del radar. Trasformando, quindi, funzioni base di un progetto ingegneristico volto alla “trasparenza”, in oggetti a se stanti, che occupano uno spazio e un tempo propri con e nella loro materialità.
I concept di Ozzola sono andati anche oltre i quattro elementi succitati, introducendo nel discorso l’ossessione dell’artista per l’elemento della rotta (filo immaginario che congiunge, conduce, traccia direzioni di vita e di viaggio). La rotta, elemento tra i più volatili eppure indispensabile (si pensi alla sua importanza nell’oceano aereo trafficato da aviogetti), che si fa materia in quel filo metallico sottile inscritto (e ancora una volta questo verbo ritorna a descrivere i lavori) nella lastra (di materiale diverso) – insieme cielo, mare, terra, forma spaziale da solcare e vivere.
In esposizione anche alcuni esempi della serie Galassie dove l’ardesia, elemento terrigno e caldo, si fa squarcio di cielo siderale, aprendo (se posata a terra) a una poetica dell’instabilità, che pone dubbi atavici. «Il cielo è sopra, ma anche sotto di noi», afferma Ozzola. E come non perdersi in questa visione di “interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi” (citando Leopardi, che meglio di noi sa descrivere l’infinito).

E adesso apriamo un discorso a parte, che non vuole essere una polemica bensì un momento di confronto tra artisti, critici, collezionisti, galleristi e semplici (ma non per questo meno importanti) visitatori. La domanda è: cosa si può definire arte oggi.
Vi sembra pretestuoso chiederlo? Eppure vedendo le mostre (e non solo queste), mi sono domandata chi ha fatto cosa. Mi spiego meglio. Molti dei pezzi in esposizione (qui come altrove) non sono più opera diretta dell’artista che si confronta con la materia. Ozzola non ha ripreso le linee studiate dagli ingegneri per far sfuggire aerei o navi all’occhio del radar per reinterpretarle in materiali, colori (o inserirle in forme) diversi. Né Cecchini si è affiancato all’artigiano per imparare come modellare la pelle fino a piegarla alla sua visione di un progetto artistico. In questo caso, il fatto che concept ed esecuzione siano separati è stato chiaramente denunciato, ma quante volte vediamo un’installazione, un’opera, una pseudoscultura e crediamo che l’artista l’abbia fatta con le proprie mani, quando al contrario ha avuto “solo” l’idea, realizzata poi da un artigiano, un professionista, un tecnico o addirittura un’industria?
Nell’era della riproducibilità dell’arte, questo dovrebbe essere ovvio. Ma allora perché il collezionista chiede quanti pezzi ci sono di un esemplare? Se l’idea è quella democratica della Bauhaus, di rendere l’arte accessibile a tutti, l’amaca di vetro, come la lampada di Wagenfeld, dovrebbero essere oggetti più o meno di serie. Oggetti di design. Può il design considerarsi arte? Perché no? E un concept originale dovrebbe anche essere riconosciuto da un prezzo appropriato, ma non certo equivalente a quello dell’opera d’arte che è di per sé unica, frutto del lavoro dell’artista (nessun collezionista chiederebbe mai quanti pezzi de I giocatori di carte sono stati prodotti).
Mi si obietterà che una galleria d’arte, un mercato dell’arte che si basa sul gioco al rialzo o sull’investimento del collezionista per pagare meno tasse, non possono restare fermi, in attesa che l’artista partorisca l’opera con le sue mani. C’è bisogno di una gran quantità di oggetti, installazioni, pezzi, in questo vortice che fagocita e consuma. Non si può rischiare che l’artista muoia giovane e il numero di opere rimanga fermo a quello del giorno della sua dipartita. Ma si potrebbe rispondere che proprio quel numero limitato aumentava il valore di ogni singolo pezzo. E se l’artista non ha tempo per sviluppare il progetto da sé, per imparare una tecnica, o non sarà mai in grado di plasmare una tale forma in un dato materiale, ecco che torniamo al discorso – legittimo – di concept e realizzazione. Che, però, dovrebbe sempre essere dichiarato.
I critici e gli storici dell’arte, i collezionisti e i musei, si scervellano per l’attribuzione di un’opera al maestro o alla sua bottega o scuola, quando si parla di arte fino a qualche anno fa, e poi ci si arrende a non voler o non poter sapere chi ha fatto cosa oggi? Se nel 1445 la Confraternita della Misericordia commissionò a Piero della Francesca il suo famoso Polittico, specificando che il maestro “non doveva avvalersi di collaboratori”, non si capisce perché oggi non si dovrebbe pretendere altrettanto. Anche perché il costo di un’opera d’arte è, spesso, proibitivo ai più – e la visione democratica dell’arte di matrice Bauhaus non sussiste. Oltre al fatto che se l’arte è sublimazione della materia, quale sublimazione artistica si può operare per interposta persona?
Mi si obietterà che un artista non può saper fare tutto. Eppure Picasso a 65 anni si appassiona al lavoro di Suzanne e Georges Ramié e impara a modellare la creta e a colorare e cuocere le sue famose opere in ceramica. Ne firmerà anche molte realizzate dal laboratorio di Madoura, che però saranno vendute come ceramiche di utilizzo comune, prodotte più o meno in serie (come dirà lo stesso Pablo ad André Malraux: «Ho fatto dei piatti; ci si può mangiare dentro»).

Simona M. Frigerio

LORIS CECCHINI 2GIOVANNI OZZOLA 3

Le mostre continuano:
entrambe fino a domenica 8 maggio

Loris Cecchini per Sistemi di visione / Sistemi di realtà
Villa Pacchiani Centro Espositivo
piazza Pier Paolo Pasolini – Santa Croce sull’Arno (PI)
orari: gio-dom, 16.00-20.00
(ingresso libero)
https://villapacchiani.wordpress.com/

Giovanni Ozzola per Sistemi di visione / Sistemi di realtà
Centro Espositivo per le Arti Contemporanee SMS
San Michele degli Scalzi
viale Delle Piagge – Pisa
orari: mar-ven, 17.00-20.00, sab-dom, 12.00-20.00
(ingresso libero)
http://www.comune.pisa.it/it/ufficio-scheda/7966/SMS-Centro-Espositivo-San-Michele-degli-Scalzi.html