Il chiasso dei tromboni armati

faafafine-04Fa’afafine, storia di un bambino gender fluid, sbarca a Lucca. Teatro San Girolamo gremito di studenti: saranno salve le loro anime?

Intorno allo spettacolo Fa’afafine s’è ormai creata un’aura che lo circonda e precede ovunque vada: il rischio della censura, il panico dei genitori e di certe fasce politiche.
Non è nostra intenzione liquidare le preoccupazioni dei genitori: per principio è importante ascoltare le posizioni di tutti, soprattutto quando le decisioni da prendere riguardano i bambini, per cui l’attenzione e la prudenza non sono mai troppe. Nello scrivere dello spettacolo però, dopo diverse riflessioni, alla fin fine non fanno che tornare alla mente le parole dell’organizzatore del Lucca Teatro Festival che, prima della replica, ha spiegato ai ragazzi perché aveva voluto Fa’afafine in Cartellone, ossia: «Primo, perché è un bello spettacolo; secondo, perché è un bello spettacolo; terzo, perché è un bello spettacolo».
Si arriva, quindi, in teatro carichi di curiosità, Fa’afafine è la pietra dello scandalo. Dopo averlo visto rimane solo il desiderio di provare a smontare in qualche modo le perplessità che lo riguardano. Ce ne asterremo, perché non è questo forse il luogo. Conta di più, in questa sede, chiedersi perché è bello Fa’afafine: perché da un punto di vista teatrale, di linguaggio, delle scelte formali ed estetiche, è ben fatto. Oltre a ciò, tratta di un argomento molto serio e sempre attuale, ovvero dell’importanza di soddisfare alcuni dei bisogni fondamentali dell’essere umano (e della sofferenza che si provano quando, al contrario, questi bisogni non sono soddisfatti). Ossia, il bisogno di accettazione, affetto, comprensione, appartenenza, sicurezza nel senso di incolumità fisica, rispetto della propria verità e autenticità. Il problema è che il bambino di cui ci si narra la storia è un bambino gender fluid. Questo, se da un lato rende lo spettacolo ancora più urgente e attuale; dall’altro, sembra mescolare le carte in tavola e cambiare il senso del discorso dello spettacolo stesso.
Fa’afafine è un racconto contemporaneo, in cui il protagonista, Alex, è un bambino innamorato, vessato e incompreso, che spera di trovare accoglienza e rifugio lontano, a Samoa, dove i bambini come lui, i Fa’afafine appunto, possono contare su persone che li amano e li accolgono, che non si fanno problemi per il loro genere fluido e vogliono loro bene a prescindere.
Il racconto è un percorso verso il riconoscimento, sia per Alex, alla ricerca di un luogo dove sentirsi accolto per quello che è; che per i suoi genitori, che imparano a rapportarsi con lui, nella sua diversità (molto divertente, in proposito, il ritratto dato dei due genitori, moderni, non impositivi, interessati al dialogo e alla comprensione, ma che si scontrano, però, irrimediabilmente contro tabù e convenzioni – in particolare il padre).
Come una fiaba, la storia di Alex aiuta a elaborare l’esperienza. Ovviamente, identificarsi con lui non significa diventare gender fluid (anche se sembra esserci qualcuno intimorito proprio da questo, come se l’identità di genere fosse un vestito che si indossa e non un sentire che emerge dalla propria interiorità). Significa, al contrario, semplicemente e come sempre a teatro, mettersi nei panni dell’altro da sé. Significa soffrire insieme a lui, vivere il suo disagio, la sua solitudine e le sue difficoltà. Identificarsi con Alex implica ridere e piangere con lui. Per gli adulti, oltre a ciò, può significare anche pensare, e ricordare (magari), quanto a confondere i bambini, fino a ferirli, siano soprattutto l’incomprensione e l’incapacità dell’adulto ad ascoltarne e a coglierne sentimenti e difficoltà, il voler imporre la propria visione del mondo sul loro sentire autentico.
Come detto, Fa’afafine è un bello spettacolo. Sono molti i momenti commoventi e intensi, come quelli divertenti e leggeri. Più che uno sguardo critico potrebbe essere la stessa reazione del pubblico dei ragazzi a parlare (un pubblico, per antonomasia, piuttosto ostico): quando l’inizio procede fra performance fisiche danzate sulla musica, il pubblico tace, catturato e coinvolto; quando Alex indossa ogni sorta di vestito e oggetto, nessuno osa fischiare, brontolare o deridere. A fine spettacolo i volti sono sereni, gli applausi e i complimenti all’attore numerosi.
Molto interessante l’uso dei video e delle proiezioni (e altrettanto interessante notare come l’attenzione del pubblico cali proprio durante il viaggio verso Samoa, momento così immersivo e digitale). Perfettamente coerente ed efficace la scelta di separare anche attraverso la diversità di medium Alex dai suoi genitori. Dal punto di vista drammaturgico e d’atmosfera si avverte, verso metà spettacolo, come un leggero cambio di andamento o di direzione: da racconto moderno, si vira verso una fiaba con intenti più marcatamente moralistici. Come se si abbassasse di genere e ci si schierasse apertamente sul campo di battaglia, utilizzando carte e topoi sicuramente realistici, ma troppo espliciti, ridondanti e, da un certo punto di vista, inutili: quello della reputazione da difendere, o della tipica frase: “perché mi è toccato un figlio così?”. Il messaggio, però, rimane sempre lo stesso ed è sempre valido. Chiunque si domandi se non fosse stato meglio non esser nati è un individuo che sta soffrendo, e che ha bisogno di accoglienza. È questo un diritto umano? Se sì, che altro ci sarebbe da aggiungere?
Quello che Fa’afafine mette in luce, senza riserve, proprio grazie al riferimento ai Fa’afafine di Samoa, è che la questione dell’identità di genere è molto più sottile e complessa delle banalizzazioni che di solito imperversano sulla scena pubblica, abbaiate da politici e gruppi di genitori in panico (Marzano docet). E, soprattutto (colpa forse ancora più grave, per i detrattori), che la gestione delle tematiche gender è un fatto culturale.

Mailè Orsi

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Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro San Girolamo
via San Girolamo – Lucca 
martedì 28 marzo, ore 9.45
www.teatrodelgiglio.it/it/teatro-del-giglio/teatro-san-girolamo/
 
Fa’afafine
Mi chiamo Alex e sono un dinosauro
regia Giuliano Scarpinato
con Michele Degirolamo
in video Gioia Salvatori, Giuliano Scarpinato
visual media Daniele Salaris – Videostille
progetto scenico Caterina Guia
assistente scene e costumi Giovanna Stinga
luci Paolo Meglio