Torna in scena, al Rifredi di Firenze, uno spettacolo dalle gambe lunghe con un Tindaro Granata in stato di grazia.
Vi sono spettacoli che, come il buon vino, invecchiando migliorano e che trovano proprio nella loro schiettezza e genuinità la loro ragion d’essere. A distanza di anni, Antropolaroid – di e con Tindaro Granata – mantiene intatta la propria forza e urgenza, proprio perché nasce da un’autenticità di forme e contenuti come solo il teatro – la realtà di un essere umano, su un palco spoglio, di fronte a un altro essere umano – sa regalare.
Il raccontare e il raccontarsi – quell’oralità cara ai siciliani ma, più in generale, al nostro meridione – permette a Granata di dipingere il quadro di una storia insieme familiare e collettiva, di una casa ma anche della terra sulla quale si fonda, di caratteri propri e peculiari eppure emblematici di un modo di essere e pensare atavico, radicato in quelle zolle come un ulivo millenario.
Con un delicato equilibrio di climax e anticlimax, tragico e comico, pathos e ragione, e un uso delle musiche di grande impatto emotivo eppure dosato con parsimonia, Tindaro ci immerge nel suo mondo, dai tempi dei bisnonni alla sua giovinezza che, per esprimersi, per realizzare i propri sogni, deve fuggire da quella terra, deve conquistarsi la libertà perdendo le proprie radici.
Uno spettacolo dalla drammaturgia solida e dall’interpretazione magistrale, che lascia con un sapore dolce-amaro in bocca, quando si abbandona la sala.
Dolce perché Tindaro, come Andy Dufresne (il grande Tim Robbins del film di Frank Darabont), riesce a inforcare quelle ali e a librarsi alto, oltre le mura del labirinto siciliano. La sua parabola, a differenza di quella di un Peppino Impastato, è felice: nessun omicidio di mafia, né fango sulla sua memoria – in un Paese dove i muri saranno di gomma ma la macchina della diffamazione è ferrea. Lui riesce a realizzare il suo sogno di attore e lo dimostra in un cortocircuito metateatrale che disvela e rivela.
L’amaro proviene dalla constatazione che, per realizzare se stesso e il proprio sogno, Tindaro Granata, come migliaia di altri, è dovuto emigrare. Andarsene. Ci hanno rubato la terra (a noi, ai nostri genitori o nonni). Certo, ci è rimasto il resto del mondo. Ma le nostre radici sono state sradicate da uno Stato tuttora assente; da quelle mafie che si arrogano la pretesa di possedere ciò che non è loro né per diritto né per umanità; e da quell’apatia, quell’accettazione dello status quo che ridicolizzava i tentativi di Granata di andarsene, di fare l’attore, e che ancora oggi – e questo, da sud a nord – quando si afferma di essere scrittori, musicisti, intellettuali o attori, rintuzza con un: «D’accordo, ma tu che lavoro fai?».
E allora resta solamente il racconto, che non possiamo che portarci dietro per trasmettere il nostro passato, per ricordarlo a noi stessi, per sentirci meno soli, per rivendicare l’appartenenza che non è possesso bensì amore. Migranti in un mondo di migranti: mai dimenticarselo – soprattutto noi italiani.
Simona M. Frigerio
Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro di Rifredi
via Vittorio Emanuele II, 303 – Firenze
sabato 15 dicembre, ore 21.00
www.teatrodirifredi.itProxima Res presenta:
Antropolaroid
di e con Tindaro Granata
suoni e luci Cristiano Cramerotti
Premio della giuria popolare della Borsa Teatrale Anna Pancirolli
Premio dell’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro nel 2011
Premio Fersen in qualità di Attore Creativo nel 2012