Foto/Industria 2019

Fino al 24 novembre Bologna ospita la IV Biennale di fotografia dell’industria e del lavoro: sono 11 le mostre a ingresso gratuito organizzate in altrettanti luoghi simbolici della città, cui si aggiunge un fitto calendario di conferenze, dibattiti e letture.

È in corso a Bologna, sino al 24 novembre, la IV Biennale di fotografia dell’industria e del lavoro. Il tema scelto per questa edizione dal curatore Francesco Zanot è Tecnosfera. Quanti hanno già avuto modo di visitare la mostra Anthropocene al MAST sanno che il termine, coniato nel 2014 dal geologo Peter Haff, indica le costruzioni e i dispositivi tecnologici sommati dall’uomo alla natura. L’insieme di siffatti elementi è talmente vasto e articolato da rivestire quasi interamente la sfera terrestre, interponendosi come un nuovo livello tra la crosta e l’atmosfera.
Francesco Zanot si riallaccia all’atto umano del costruire per spiegare, attraverso le immagini, come soprattutto in questo ultimo secolo si sia rafforzata la struttura della tecnosfera. La narrazione parte, ça va sans dire, dalla fabbrica dove il gesto umano di edificare ripari, creare utensili o preparare cibo è passato da necessità di sostentamento a produzione di massa, influendo a velocità crescente sulle mutazioni dell’ambiente terrestre, consumando o inquinando le risorse naturali.
La Biennale Foto/Industria 2019, al fine di raccontare la complessità attuale della tecnosfera e la sua storia, propone 11 mostre, ciascuna dedicata ad approfondirne una specifica componente. Sono oltre 250 i pezzi presentati, tra fotografie, video, installazioni e documenti originali, per offrire al pubblico informazioni quanto più articolate possibili al fine di diffondere consapevolezza delle problematiche in corso ma anche delle condizioni di lavoro, passate e attuali.
A seguire vi presentiamo in ordine cronologico le mostre, iniziando dalla Pinacoteca Nazionale dove sono esposti i Paesaggi della Ruhr immortalati a cavallo degli anni Trenta da Albert Renger-Patzsch. Il fotografo tedesco è uno degli esponenti di spicco del movimento Nuova Oggettività, nato in Germania nel primo dopoguerra con l’obiettivo di riprodurre gli oggetti in modo suggestivo con il solo strumento tecnico, senza aggiungervi ritocchi di sorta.
Quando nel 1929 Renger-Patzsch si trasferisce per lavoro a Essen decide di applicare i canoni della sua ricerca estetica alla fotografia di paesaggio. Visitando la Ruhr non si interessa al clima bucolico delle fattorie ottocentesche, ai boschi o ai ruscelli bensì si concentra sulla moderna architettura industriale, su ponti, strade, linee elettriche piuttosto che su cumuli di materie prime o di rifiuti. 70 stampe in bianco e nero, provenienti dall’Ann und Jürgen Wilde Foundation presso la Pinakothek der Moderne di Monaco di Baviera, conducono il visitatore indietro nel tempo, agli albori della storia della fotografia e del paesaggio industriale moderno dominato dalla fabbrica con le ciminiere fumanti.

Vent’anni prima di Robert Capa a Budapest nasce André Kertész, fotografo che per tanti aspetti ne anticipa il percorso professionale. Nel 1914 è al fronte nelle fila dell’esercito austro-ungarico, con la macchina al collo per documentare la vita dei militari più che gli aspetti tattici dei combattimenti, rivoluzionando la concezione del reportage di guerra. Nel 1925 si stabilisce a Parigi e, affascinato dalla città, si afferma come pioniere della street photography; nel 1936 si trasferisce negli USA dove, nel 1944, gli vengono commissionati due lavori apparentemente lontani dalla sue corde per pubblicizzare gli stabilimenti Firestone e il centro ricerche dell’American Viscose Corporation. Alla Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna la mostra Tires / Viscose espone le stampe selezionate dai clienti insieme ai provini a contatto con a margine appunti dell’autore, alle bozze di impaginazione e a copia delle pubblicazioni finali: sono preziosi materiali originali che permettendo di seguire l’intero processo grafico, dallo scatto alla brochure.
Concentrandosi sulle fotografie si può notare come Kertész, coerentemente con il suo stile, non si sia limitato a valorizzare i processi produttivi all’avanguardia ma abbia allargato il quadro includendo anche gli operai che fanno funzionare quelle macchine, restituendo un interessate quadro sociale oltre che di storia industriale americana.

La fotografia per Lisetta Carmi rappresenta solamente una delle fasi della sua vita professionale. Genovese, dopo il diploma in pianoforte l’artista si dedica con successo alla carriera di concertista sino al 1960 quando, avvicinatasi casualmente alla fotografia, inizia a lavorare come fotografa al Teatro Duse di Genova. Parallelamente esegue per conto del Comune svariati reportage di taglio sociale sulle infrastrutture urbane e, in un simile contesto, non può esentarsi dal documentare nel 1964 le condizioni di lavoro al porto. Le fotografie vengono esposte quello stesso anno, accompagnate dai testi di Giuliano Scabia, nella mostra Genova porto: monopoli e potere operaio patrocinata dalla FILP-CGIL di Genova, sollevando ampi dibattiti. In quelle immagini, catturate intrufolandosi sotto mentite spoglie tra le banchine, oltre alle navi imponenti e al fitto andirivieni dei rimorchiatori, si colgono le pesanti condizioni di lavoro vigenti che, come nel caso degli addetti allo scarico dei fosfati, sono gravate dall’insalubrità dell’ambiente in cui gli uomini si muovono senza protezione alcuna.
Nello scenografico Oratorio di Santa Maria della Vita l’opulenza delle decorazioni barocche si confronta con il minimalismo del bianco e nero delle fotografie di denuncia. A Porto di Genova è accostato un secondo lavoro intitolato Genus Bononiae, realizzato nel 1962 all’interno dell’industria siderurgica Italsider. È lo stesso stabilimento dove Luigi Nono registra i rumori destinati alla composizione musicale La fabbrica Illuminata, basata su testi di Scabia e rappresentata in prima assoluta al Teatro la Fenice di Venezia il 15 settembre del 1964. In questo servizio, Lisetta Carmi preferisce valorizzare gli aspetti scenografici della lavorazione dell’acciaio.

Nei sotterranei di Palazzo Bentivoglio sono esposte Prospettive industriali, fotografe tratte da quattro lavori commissionati a Luigi Ghirri da altrettante importanti realtà del Made in Italy: Ferrari, Marazzi, Bulgari e Costa Crociere.
Ghirri è un nome imprescindibile quando si organizza un’esposizione dedicata alla realtà produttiva italiana, sia per il prestigio dei clienti collezionati nel corso della carriera sia per l’approccio loro riservato. Le sue fotografie colpiscono per il sobrio equilibrio dell’immagine in termini di composizione dell’inquadratura e di bilanciamento del colore; i suoi servizi non hanno i toni patinati tipici della pubblicità anni Ottanta ma trasmettono la sobrietà di un mestiere eseguito con cura e passione. Seguendolo all’interno delle fabbriche e dei cantieri si ha l’impressione di trovarsi dinnanzi a un’ordinaria giornata lavorativa e non su un set costruito ad arte; il suo obiettivo immortala il prodotto finito ma indugia anche tra i macchinari e nel reparto progettuale a tributare il dovuto riconoscimento a quanti hanno concepito e sviluppato l’idea.
Questa mostra è l’occasione per scoprire un’ulteriore porzione dell’inestimabile archivio di Luigi Ghirri e, da sola, vale il viaggio a Bologna.

Armin Linke racconta al pubblico cosa accade in fondo al mar. Con video, interviste, fotografie, grafici e documenti storici il fotografo milanese affronta il tema dello sfruttamento degli oceani dal punto di vista scientifico, economico e, ovviamente, politico. Prospecting Ocean è il risultato delle investigazioni condotte da Linke tra il 2016 e il 2018 visitando laboratori di ricerca, partecipando a conferenze internazionali e incontrando ambientalisti per capire la portata, soprattutto in termini ecologici, degli scavi oceanici.
L’allestimento rispetta il layout della storica Biblioteca Universitaria di Bologna, utilizzando le austere vetrine in legno e vetro di antica fattura per rimarcare il tono di autorevolezza della ricerca esposta.

Nel 1936 Adolf Hitler inaugura lo Stadio olimpico di Berlino, costruito su progetto dell’architetto Werner March, asserendo che la struttura sarebbe rimasta in piedi per i successivi 1.000 anni. Scettico sulla lungimiranza della previsione, David Claerbout si cimenta nel meticoloso rilievo fotografico di ogni singola pietra dello stadio per poi procedere alla ricostruzione digitale dell’edificio. Un gruppo di esperti lo coadiuva nell’inserire informazioni sulle condizioni metereologiche, sulla flora spontanea della zona e sul degrado di materiali e strutture al fine di elaborare un software che ricreasse il ciclo di vita di questo simbolo del Reich.
A Palazzo Zambeccari è collocata la videoinstallazione Olympia che conduce il visitatore in un’incessante camminata attorno al modello virtuale dello Stadio olimpico per coglierne i progressivi segni di degrado. Il software è attivo già da alcuni anni perciò si notano erbacce che hanno preso possesso delle fessure tra i marmi e una patina scura che ne muta il colore. I segni del decadimento sono evidenti ma Claerbout non contempla l’intervento umano né per restauri né per vandalismi lasciando che le generazioni future assistano al crollo finale per sole cause naturali.

Nel 1906, a pochi giorni dal terremoto e dall’incendio che distruggono ampia parte di San Francisco, i Miles Brothers girano il film muto A Trip Down Market Street montando la telecamera su una cable car trascinata per il centro della città. Stephanie Syjuco, dopo oltre un secolo, decide di riprendere l’idea e costruisce Spectral City senza muoversi dal suo computer. L’artista californiana di origini filippine attinge alle immagini di Google Earth relative al percorso in oggetto e le monta tra loro scegliendo di non correggere le distorsioni nei punti di giunzione. Il suo unico accorgimento consiste nell’eliminare le persone ritratte.
Syjuco crea ed espone al MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna l’istantanea di una città che collassa progressivamente sotto gli occhi del pubblico: in primo piano gli edifici si piegano su sé stessi, lasciando cadere grossi blocchi informi sulle strade, mentre sullo sfondo svettano i grattacieli ancora intatti. Un’esperienza surreale eppure non così lontana dai video realizzati nel corso dei terremoti che in questi ultimi anni hanno scosso ampie porzioni d’Italia, a iniziare dall’Emilia nel 2012.

Delio Jasse è un artista che ormai ha base stabile a Milano ma nei suoi lavori racconta la natia Luanda, la capitale dell’Angola. Fondata nel 1575 dall’esploratore portoghese Paulo Dias Novais, Luanda è una megalopoli africana in continua espansione: si prevede che dai 5 milioni di abitanti attuali passerà a 15 milioni entro il 2030.
Le fotografie di Jasse narrano di una città dalle due colonizzazioni: la portoghese protrattasi sino a metà XX secolo e la cinese attualmente in corso. Come in altre parti del mondo, anche in Angola si sono infatti insediati i colossi estrattivi cinesi con l’intento di sfruttare i ricchi giacimenti di minerali e petrolio, costruendo al contempo infrastrutture ed edifici di basso pregio architettonico a cui si sommano aree sovraffollate, dalle pessime condizioni igieniche, in cui stanziano gli immigrati appena giunti dall’entroterra.
La città si sta espandendo a macchia, senza un piano preciso e Delio Jasse ne documenta lo sviluppo fotograficamente, rielaborando le immagini attraverso giochi di sovrapposizioni come in Arquivo Urbano (2019) e Darkroom (2013) o conferendo loro valore imprimendole in esemplari unici, su supporti pregiati ulteriormente impreziositi da scritte dorate, come nella serie Sem Valor (2019). Le tre serie sono visibili a Palazzo Paltroni, ospiti della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna.

Le stampe a grande formato e dai colori saturi di Matthieu Gafsou danno voce al transumanesimo, il movimento culturale indicato anche come H+ – da cui il titolo della mostra – che incentiva l’applicazione di scienza e tecnologia per implementare le performance umane sia fisiche sia cognitive. Le fotografie sono montate su totem che tendono verso il soffitto del Salone d’onore di Palazzo Pepoli Campogrande dove è raffigurato Ercole, l’eroe dalla forza sovrumana, circondato dagli dei dell’Olimpo, a simboleggiare il desiderio di poter un giorno vedere l’uomo assurgere a loro pari.

Le immagini di Yosuke Bandai elevano invece i rifiuti a opera d’arte. Il fotografo raccoglie i prodotti di scarto del ciclo produttivo e li assembla in composizioni di intenso valore poetico poi immortalate con uno scanner per oggetti. Le sculture, simbolo di rinascita, svettano su sfondo nero con la dignità delle statue classiche e confluiscono nell’album delle meraviglie di Bandai.
L’allestimento pensato per A certain collector B all’interno del Museo Internazionale e Biblioteca della Musica è concepito per esporre le immagini senza un ordine temporale o gerarchico preciso, avvolgendo il pubblico in un cerchio destinato a evocare il ciclo continuo della reincarnazione delle anime, fondamento della dottrina buddista.

L’ultima tappa di questa edizione della Biennale è al MAST per Anthropocene da cui, in fondo, tutto è partito. L’esposizione multimediale unisce alle fotografie di Edward Burtynsky, i filmati di Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier e le esperienze di realtà aumentata per raccontare il dramma ambientale in corso. Vi rimandiamo all’articolo dedicato da Artalks alla mostra lo scorso maggio in occasione della sua inaugurazione.

Foto/Industria 2019 non si esaurisce con le mostre elencate ma contempla una lunga serie di iniziative culturali che vi invitiamo a scoprire sul sito Internet dedicato. La Biennale è tuttavia anche una piacevole occasione per visitare Bologna e, camminando sotto i portici del centro storico, scoprire palazzi che dietro il portone svelano cortili lussureggianti, imponenti scalinate barocche e sale dai soffitti riccamente affrescati.
L’architetto Francesco Librizzi ha allestito le esposizioni mantenendo una linea grafica comune pur adeguando il layout sia al contenuto sia allo spazio che fa da contenitore. È stato adottato questo stesso approccio progettuale anche per il catalogo suddiviso in 11 piccoli volumi dalla copertina cerulea, acquistabili insieme o singolarmente.

Silvana Costa

La mostra continua:
IV Biennale di fotografia
dell’industria e del lavoro
Tecnosfera
a cura di Francesco Zanot
fino a domenica 24 novembre 2019
www.fotoindustria.it

11 mostre/11luoghi
Yosuke Bandai
A certain Collector B
Istituzione Bologna Musei
Museo Internazionale e Biblioteca della Musica
strada Maggiore, 34

Lisetta Carmi
Porto di Genova
Genus Bononiae
Oratorio di Santa Maria della Vita
via Clavature, 8

David Claerbout
Olympia
The real time disintegration into ruins of the Berlin Olympic stadium over the course of a thousand years
Palazzo Zambeccari – Spazio Carbonesi
via De’ Carbonesi, 11

Matthieu Gafsou
H+
Pinacoteca Nazionale
Palazzo Pepoli Campogrande
Via Castiglione, 7

Luigi Ghirri
Prospettive industriali
Palazzo Bentivoglio – Sotterranei
via del Borgo San Pietro, 1

Delio Jasse
Arquivo Urbano
Fondazione del Monte di Bologna E Ravenna
Palazzo Paltroni
via delle Donzelle, 2

André Kertész
Tires / Viscose
Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna
Casa Saraceni
via Luigi Carlo Farini, 15

Armin Linke
Prospecting Ocean
Biblioteca Universitaria di Bologna
via Zamboni, 33/35

Albert Renger-Patzsch
Paesaggi della Ruhr
Pinacoteca Nazionale
Sala degli Incamminati
via delle Belle Arti, 6

Stephanie Syjuco
Spectral City
Istituzione Bologna Musei
MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna
Project room
via Don Minzoni, 14

Edward Burtynsky, Jennifer Baichwal, Nicholas De Pencier
Anthropocene
Fondazione MAST
via Speranza, 42
aperta fino al 5 gennaio 2020

 

Catalogo:
IV Biennale di fotografia dell’industria e del lavoro

Tecnosfera
a cura di Francesco Zanot
testi di Simone Förster, Stephanie Hessler, David Le Breton, Giovanni Battista Martini, Matthieu Rivallin, Isabella Seràgnoli, Urs Stahel, Francesco Zanot
12 booklet in confezione cellophanata
15 x 22 cm; 432 pagine; 189 illustrazioni in b/n e a colori
edizione bilingue in italiano e inglese
prezzo di copertina 25,00 euro