Nei giorni inaugurali della quindicesima edizione di Teatro a Corte abbiamo incontrato Beppe Navello che, in veste di Direttore della Fondazione Teatro Piemonte Europa, è ideatore e anima del Festival. Formatosi come regista al fianco di Mario Missiroli, ha diretto numerosi spettacoli spaziando dai grandi classici a testi contemporanei quali Donne informate sui fatti di Carlo Fruttero o Cinéma! – film muto in palcoscenico, di cui è anche autore.
Lei si è formato al Teatro Stabile di Torino, dal 1977 al 1981, come assistente di Mario Missiroli. Ci regala un ricordo del regista scomparso a maggio?
Beppe Navello: Mi ha molto turbato la morte di Missiroli. Stava benissimo fino a qualche mese fa: c’eravamo lasciati a novembre, quando sono partito per la Polonia, per la regia di uno spettacolo che abbiamo presentato a marzo al Teatro Astra. Si trattava di Cinéma!, messo in scena con attori polacchi e prodotto da noi con il Teatr Śląski di Katowice. Ci eravamo lasciati dicendoci: “Ci rivediamo al mio ritorno!” In effetti, così è stato. Però, nel frattempo, lui era entrato in ospedale e le sue condizioni non erano più quelle di novembre. A marzo è venuto in teatro ad assistere al mio spettacolo, con la bombola d’ossigeno. Era molto amico del nostro teatro: ci veniva spesso. Pensi che lui non amava affatto andare a teatro, neanche per vedere i suoi spettacoli: li faceva – e li faceva benissimo – ma non tornava a rivederli se non per ragioni tecniche che erano insorte o per richieste degli attori. Mi dispiace molto, anche perché parlavamo di un suo ritorno alla regia nella Stagione 2015-2016. La sua morte ci impedisce di realizzare quel progetto, ma spero di mettere in scena un suo testo, Tragedia popolare, che fu diretto da lui negli anni 80.
Con qualche adattamento rispetto alla versione originaria?
B.N.: Del testo no, ma della regia sì. Nel senso che Missiroli non ha lasciato indicazioni di regia: c’è il testo e poi c’è la sua messinscena. Ma io non vidi mai quello spettacolo perché all’epoca ero già altrove.
Quindi, non si sentirà condizionato dal maestro?
B.N.: Assolutamente no. La mia Tragedia popolare sarà sicuramente un’altra cosa e, speriamo, venga bene.
Nel 2001 fonda il Festival internazionale Teatro Europeo. Come nacque l’idea?
B.N.: In realtà l’idea risale a un paio di anni prima, al 1997, periodo in cui, terminata la mia seconda direzione al Teatro Stabile dell’Aquila, mi trovavo senza una sede ove poter lavorare, con l’unica prospettiva di collaborazioni discontinue con altri teatri e compagnie. Ero altresì esausto per la stanchezza che si respirava nel teatro italiano: mi sembrava che ripetesse dei riti ormai insopportabili e fosse molto prudente nelle sue modalità di funzionamento. Si compivano scelte nel solco di una tradizione consolidata, anche quando si trattava di innovazione, senza rischiare nulla. Uso il passato perché parlo degli ultimi anni 90 ma non è che la situazione, per certi versi, sia mutata più di tanto. A tutto ciò, si aggiungevano le eterne difficoltà del teatro italiano: la mancanza di certezze, di prospettive e, soprattutto, di finanziamenti. Fatto questo ribadito anche dall’ultimo rapporto Eurispes, che segnala l’Italia all’ultimo posto in Europa. Inutile i politici dicano: “Non ci sono più soldi” perché, in realtà, non ci sono mai stati. Per tutte queste ragioni e per la prudenza dell’universo teatrale, ho sentito il bisogno di prolungare la mia frequentazione francese.
Che clima ha trovato in Francia e come si è evoluto il percorso franco-italiano di Teatro a Corte?
B.N.: Mi sono accorto che Oltralpe esistevano forme e generi teatrali che, in Italia, non si vedevano facilmente e così, quando sono tornato a Torino, nel 1999/2000, sono andato al Centre Culturel Français e ho proposto: “Perché non facciamo un festival franco-italiano?” Erano vent’anni che non lavoravo più a Torino, la mia città, dove ho sempre conservato una casa sebbene, nei decenni precedenti, mi fossi mosso sull’asse L’Aquila/Roma/centro Italia. Abbiamo trovato quattro soldi: 25 milioni di vecchie Lire finanziate dalla Provincia che, all’epoca, era presieduta da Mercedes Bresso, una donna sempre molto attenta agli sguardi lanciati oltre i confini italiani. Con questo budget minimo abbiamo ideato un piccolo festival: il primo anno avevamo in cartellone solo tre spettacoli. L’evento si è concluso in una giornata ma è stato un avvio. Un’occasione per rinsaldare amicizie, come quella con Jean-Claude Penchenat (cofondatore del Théâtre du Soleil), e per stringere alleanze grazie alle quali, negli anni seguenti, siamo riusciti a costruire un percorso di senso. La manifestazione, l’anno successivo, sebbene ancora di matrice italo-francese, si intitolava già “del teatro europeo”. Il terzo anno siamo riusciti a ospitare uno spettacolo tedesco e uno svizzero e poi, passo dopo passo, abbiamo creato un festival che, nel 2007, potevamo dire fosse importante. Nel frattempo, seguendoci e sostenendoci sempre, Mercedes Bresso era diventata Presidente di Regione e, quell’anno, ci propose di elaborare un progetto per celebrare l’apertura di Venaria Reale dopo un lungo restauro e per valorizzare l’insieme delle dimore sabaude. Le residenze della famiglia Savoia, nel 1997, erano state dichiarate Patrimonio dell’Umanità UNESCO e l’apertura di Venaria Reale, in autunno, suggellava la creazione di una rete tra i castelli che sorgono intorno a Torino. Presentammo, quindi, al Ministero dei Beni Culturali un progetto per promuovere – attraverso le attività culturali contemporanee dello spettacolo dal vivo – un bene del passato, mettendo a confronto gli artisti moderni con gli splendori barocchi. Questo progetto ha suscitato subito interesse e incentivato la creatività: oggi, per esempio, al Castello di Aglié si terrà la performance di Ambra Senatore (leggi la recensione). Le è stata richiesta una perfomance di una decina di minuti da eseguire nel minuscolo teatro di corte, dove entrano non oltre venti persone alla volta. Quando è arrivata per le prove ci siamo resi conto che il sipario non può essere sollevato o, comunque, spostato, ma Ambra non si è scomposta e ha rivoluzionato la sua esibizione tenendo conto di questo vincolo. Tutto ciò è la dimostrazione lampante di come la creazione in situ debba fare i conti con il luogo in cui si propone. Sono molti gli spettacoli che si possono vedere solamente qua, e che non posso essere ripetuti da nessun’altra parte.
Anticipazioni per la prossima edizione? Il Collectif G. Bistaki (leggi la recensione), ad esempio, ha accolto l’invito a tornare nel 2015 con la versione originale del proprio spettacolo.
B.N.: Iniziamo a lavorare al festival sempre con un paio d’anni d’anticipo. Sappiamo già, ad esempio, che la vetrina del prossimo anno sarà dedicata alla Germania. Abbiamo inoltre ipotesi molto avanzate per il programma: per l’inaugurazione, è stato scelto uno spettacolo francese.
Inoltre, forse ci attesteremo su questa calendarizzazione per Teatro a Corte: per questa edizione abbiamo posticipato le date a causa dei Mondiali di calcio ma, tutto sommato, è un periodo ottimale anche perché non si sovrappone ad altri festival, quale quello di Avignone.
A tre giorni dal debutto, come le sembra il pubblico stia rispondendo a questa edizione di Teatro a Corte?
B.N.: Abbiamo i teatri pieni e il fatto mi rende felice ma, non nascondo, mi sbalordisce anche. Ieri sera, ad esempio, in piazza San Carlo, il Comune aveva organizzato la Serata Mozart portando in scena il Don Giovanni e mettendo a disposizione del pubblico duemila sedie gratis. Non era facile, in una simile circostanza, registrare il tutto esaurito ma è sempre meglio ci sia concorrenza perché, nel caso, la vittoria è bellissima. Il sold out dei primi tre giorni è stato, quindi, un ottimo inizio e lavorare in una città, dove si investe in cultura, è un piacere. L’unica cosa da migliorare è forse la comunicazione: mettersi d’accordo meglio sull’organizzazione degli eventi.
In effetti è un peccato che la mostra sui Preraffaelliti (leggi la recensione) abbia chiuso la settimana prima dell’inizio del festival. Avrebbe potuto esserci un interessante scambio di pubblico tra le due iniziative.
B.N.: Verissimo, ma questo lo dica lei così io non sollevo polemiche.
Ha accennato alla sua esperienza in Francia. Ci esporrebbe differenze e similitudini tra i due panorami teatrali?
B.N.: Le differenze sono enormi. La Francia è tra i pochi grandi Paesi europei con un sistema teatrale consolidato. Oltralpe esiste la rete dei teatri nazionali poi, a scendere, quella dei centri drammatici nazionali, delle scene nazionali e, infine, le Case della Cultura – presenti su tutto il territorio – che ha voluto, a suo tempo, Malraux, Ministro della cultura di De Gaulle. Maoista e anima ribelle, André Malraux, quando ha ricevuto l’invito del Presidente, lo ha accettato a patto di ottenere quei finanziamenti che, negli anni, hanno consentito alla Francia di darsi una scena teatrale forte e importante, in grado di attrarre su di sé l’attenzione internazionale. Forse esagero ma, ad esempio, non serve andare fino in Scandinavia per cercare le Compagnie da inserire nella vetrina dei Paesi nordici, in quanto basta recarsi a Parigi. Una capitale che, grazie a ingenti fondi destinati alle attività culturali, ha dimostrato che “con la cultura si mangia”. Anche loro sono in difficoltà in questo momento di crisi economica però, prima che smantellino il sistema, ci vorrà del tempo. Noi lavoriamo con la Francia molto volentieri, stabilendo con quel Paese contatti, produzioni e scambi importanti. Se, al contrario, dovessi indicare un difetto del sistema francese è il suo essere troppo rassicurante: mentre noi italiani siamo abituati a metterci in cammino per cercare lavoro e fortuna altrove; loro sono certi che, prima o poi, i fondi per le iniziative arriveranno.
Venendo all’attualità, cosa pensa della riforma dei teatri stabili che introduce cambiamenti radicali?
B.N.: Io ne penso benissimo perché ci voleva uno scossone salutare e questo, certamente, lo è. Lo definisco scossone salutare perché costringe i teatri stabili pubblici – come il nostro – che diventeranno teatri nazionali e quelli di innovazione – ovvero quelli che hanno dato importanti risultati nel panorama italiano, dall’Elfo Puccini al Franco Parenti di Milano o la Tosse di Genova per restare solo al Nord – a produrre molto di più. Soprattutto, li obbliga a smettere di mettere in scena monologhi, magari co-producendoli con altri quattro o cinque teatri. La riforma costringerà a produrre in proprio, introducendo degli incoraggiamenti per stabilizzare il nucleo artistico e, dunque, tornare al vero teatro. D’altronde, siamo tutti allarmati da alcuni punti: prima di tutto, il fatto che si chiede di introdurre un sistema che costerà di più e, questo, non si capisce come e da chi sarà finanziato. È un modo di procedere tipico italiano ma, al di là di questo fatto, io penso che dal 1° gennaio si dovrà pensare seriamente a come finanziare le attività culturali, invece di continuare a tagliare loro i contributi. La riforma costringe i teatri a pensare triennalmente. Tale elemento era già stato introdotto in passato ma, di fronte alla povertà del sistema italiano complessivo, era impossibile pensare a progetti a lunga scadenza. Inoltre, saranno superati molti vincoli, quali quelli sulle collaborazioni internazionali. Una realtà come la nostra avrà notevoli chance: potremo programmare triennalmente e lavorare con i teatri che ci interessano in Finlandia, in Francia o in Polonia, come abbiamo fatto l’anno scorso e come continueremo a fare. Ci sono però anche altre ragioni di estrema preoccupazione: per esempio, l’ospitalità sarà molto ridotta e, questo, rischierà di consegnare gli spettacoli che richiamano pubblico al settore privato, obbligandoci a subire una concorrenza spietata. In parallelo c’è la preoccupazione di diventare monadi: ovvero, privati della possibilità di fare rete, ciascuno presenterà i propri spettacoli e basta; lo scambio, così utile ai teatri, agli artisti e al pubblico, scomparirà. Inoltre, si impedisce ai direttori artistici di firmare più di una regia all’anno. Nel mio caso non c’è problema, la media delle regie che ho curato da quando esiste Teatro Europa è di una ogni anno e mezzo. Tuttavia, penso ai registi giovani e temo che si chiudano in sé, non riuscendo più a confrontarsi. Ma questo, credo, sarà oggetto di aggiustamenti che verranno per forza di cose: anche il Ministero dovrà rendersi conto che servono modifiche in corso d’opera.
Silvana Costa
Teatro a Corte
www.teatroacorte.it