Faccia a faccia con una delle menti ideatrici di Homi, il nuovo salone dedicato alla persona, ai suoi stili di vita ed ai suoi spazi, per scoprire una designer che riesce a coniugare l’innovazione con la sostenibilità ambientale e sociale.
A gennaio 2014 Macef, il salone della casa che si svolge a Milano con cadenza semestrale – appuntamento irrinunciabile per gli addetti ai lavori provenienti da ogni parte del mondo – ha celebrato il mezzo secolo di vita. Con l’occasione l’ente Fiera Milano ha scelto di rilanciare la sua manifestazione di punta, rivoluzionandone completamente il concept per puntare l’attenzione direttamente sulla persona, le sue abitudini di vita e, di conseguenza, l’ambiente in cui abita e agisce. Il nuovo salone si presenta al pubblico completamente rinnovato nell’immagine, negli allestimenti e nel nome: Homi, acronimo di Home Milano. Appena conclusa la seconda edizione, Artalks ha incontrato Lucy Salamanca, la designer di origini colombiane che con Alessandro Agrati costituisce il tandem di creativi che sta alla base di questa importante – e riuscita – trasformazione. Abbiamo avuto il piacere di scoprire una professionista creativa, preparata e lungimirante ma che, al contempo, non perde il contato con i valori profondi di questo mestiere, a iniziare dal rispetto per chi lavora alla realizzazione delle sue idee.
Attraverso quale percorso formativo si è avvicinata al design?
Lucy Salamanca: «Prima di entrare all’università, il design per me non esisteva. Non sapevo cosa fosse: c’erano l’architettura e l’interior design. Ho studiato all’Università di Bogotà dove ho avuto modo di avvicinarmi a questa nuova disciplina che mi ha appassionata sin dalle prime lezioni; al termine del corso mi sono iscritta ad un master sul design automobilistico all’Istituto Europeo del Design di Milano. Ebbene sì, mi ha sempre affascinato questo mezzo nomade che ci porta ovunque ed ero entusiasta all’dea di cimentarmi con la progettazione dell’abitacolo e della carrozzeria. Al termine degli studi teorici ho lavorato un anno al centro ricerche Alfa Romeo, occupandomi dell’Alfa 33. Sono stata fortunata, anche se è stato difficile essere donna in un simile contesto – il mondo delle auto era ed è tuttora composto in prevalenza da uomini – ancora oggi, nel mio lavoro, utilizzo insegnamenti appresi allora. Successivamente, sono entrata nel giro degli studi milanesi, ho collaborato con Paolo Nava, Paolo Orlandini e con lo Studio Rosari, affrontando il mondo dei mobili, del bagno e delle barche, aggiungendo così un altro tassello alla mia formazione. Passo dopo passo, in un percorso di crescita professionale che – mi piace dire – continua ogni giorno, ho aperto uno studio mio a Milano per trasferirmi, dopo pochi anni, a Bologna».
Forse troppo a lungo il mondo del design ha avuto difficoltà ad aprire le porte all’altra metà del cielo. Certamente ci sono state grandi progettiste ma si è trattato episodi sporadici che hanno indotto Matali Crasset ad affermare: “Quando ha iniziato ad aprirsi al mondo femminile, il design ha scoperto un’importante e nuova componente: quella del rito domestico“. Condivide questo punto di vista?
L. S.: « Attualmente vedo meno questo aspetto, probabilmente in questi ultimi anni c’è stata maggiore integrazione. Trovo però che quell’affermazione sia in parte condivisibile, soprattutto per ragioni di natura culturale. La donna è sempre venuta in secondo piano, anche in questo settore, ma, quando le è stato lasciato finalmente più spazio, la componente femminile del design ha dato una nuova prospettiva alla disciplina e ha ridimensionato la visione del quotidiano anche negli oggetti».
Scorrendo le immagini dei tanti oggetti che ha progettato, notiamo che spazia con ugual perizia dalla piccola alla grande dimensione, giostrandosi tra le funzioni e gli stili. Con cosa non si è ancora cimentata ma le piacerebbe progettare e quale tipologia di oggetto sente più vicino alle sue corde?
L. S.: «Più che un semplice oggetto mi piace molto l’idea di completare uno spazio e non sto parlando di mero interior design. Io amo ideare oggetti considerandoli non semplici icone ma bensì parte di un mondo che gli permetta di vivere in relazione con altri oggetti e che, proprio per questo, gli offra un’esistenza unica. Mi stimola la complessità di un contesto in cui gli oggetti si vanno ad inserire: che si tratti di una casa, un albergo, una SPA o un bagno, quello che mi affascina è l’insieme degli elementi che vanno a comporre l’ambiente che ci circonda. Un oggetto richiede la presenza di altri oggetti per potersi comunque definire completo e a me piace costruire mondi e, al loro interno, dare forma a piccoli individui».
Quando affronta un nuovo incarico, viene prima il materiale o la forma?
L. S.: «Quando mi viene commissionato un lavoro contano innanzitutto le persone. Il dialogo al primo incontro con il cliente è importantissimo: mi serve per conoscerne le aspettative. Al secondo posto c’è il materiale e in questa voce includo anche la tecnologia necessaria a lavorarlo e ottenere il prodotto finito. La materia determina quello che sarà l’oggetto perché, intorno, le si costruisco forma, funzione e modalità di utilizzo».
Come anche il sito dello studio ben evidenzia, parte del suo lavoro è finalizzato alla creazione di prodotti social&eco. Cos’è per lei la sostenibilità?
L. S.: «Nel 2000, grazie a Mercato equo e solidale e alla Comunità europea, ho avuto l’opportunità di iniziare un percorso di progettazione nel Sud del mondo. Ho scoperto un universo sconosciuto perché non mi ero mai occupata prima degli aspetti produttivi e dell’aspetto umano che ci sta dietro. Ho seguito produzioni in Asia e America Latina per un totale di 60-70 progetti intrapresi nell’arco di dieci anni, vedendo di persona le condizioni dei lavoratori, delle donne e dei bambini. Lavorare a stretto contatto con cooperanti, antropologi e sociologi ha cambiato radicalmente il mio approccio al design. Non mi basta più studiare la forma e scegliere i materiali, ora entro nel dettaglio del come si fa, di come lavorano gli artigiani, che danni certe tecniche producono, per esempio, alle loro mani e in quanto tempo guariscono, cosa respira un uomo quando soffia un vetro riciclato in India piuttosto che in Guatemala. Con la cooperazione ho imparato davvero cosa siano la sostenibilità, l’equità o un progetto certificato: social per me è tutto questo».
Da quel momento è cambiato qualcosa nel suo modo di progettare?
L. S.: « È stata un’esperienza fantastica che mi ha fatto conoscere mondi inimmaginabili, che mi ha segnata dentro e, da allora, applico, forse in modo più leggero, la sostenibilità a ogni lavoro che faccio. Per esempio, con Alce Nero sono entrata in contatto non solo con l’universo del cibo ma anche con il mondo degli agricoltori, affrontando la difficoltà di far capire alle persone come viene fatto un prodotto, cosa ci sia dietro. Ho imparato che il design deve essere a servizio di qualcosa che non sia l’oggetto stesso ed è come se per il mio lavoro avesse avuto inizio una nuova epoca, stimolando l’esigenza di rivedere la mia professionalità».
Ci racconti qualcosa di più di Homi.
L. S.: « Homi nasce dall’esigenza di Fiera Milano di rinnovare Macef. Con Alessandro Agrati ricopro il ruolo di art director del progetto, occupandomi sin dall’inizio della scelta del nome, del contesto, dei colori e dell’immagine da veicolare al pubblico ed agli espositori. Come ho già spiegato, sono attratta dalla complessità e questo è un lavoro davvero stimolate: seguo gli allestimenti, la comunicazione, la scelta degli espositori e fornisco agli allestitori le indicazioni necessarie a dar vita ad un insieme armonico e piacevole per il visitatore. Dietro la riprogettazione del layout e dei preallestiti – sia dal punto di vista tecnico che cromatico – ci sono mesi di lavoro con Fiera Milano finalizzati a definire la nuova identità di questo evento. La fase di preparazione è stata lunga e impegnativa perché il disegno di Homi, con i suoi dieci satelliti, è decisamente complesso. Si è appena conclusa la seconda edizione e il progetto è in buona parte compiuto e inizia a vivere di un proprio respiro; il processo di implementazione continuerà ancora, per piccoli step, sino a completare questo disegno complessivo basato sul rapporto fiera-azienda-visitatore».
Quali incontri hanno segnato la sua esperienza professionale?
L. S.: «Lasciando la Colombia sono andata alla scoperta di tante cose di cui avevo sentito parlare perché le volevo finalmente toccare con mano: sapeste quanti miti mi sono caduti! Di contro ho avuto l’opportunità di conoscere grandi persone tra cui Armando Testa con cui negli anni Ottanta ho creato un dialogo professionale che mi ha arricchito moltissimo. Ho avuto la fortuna di imbattermi in persone che mi hanno guidato nel mondo del design, offrendomi opportunità, incitandomi a proseguire per la strada che stavo percorrendo o fornendomi suggerimenti preziosi su cosa potessi migliorare o modificare: queste sono le vere figure di riferimento nella mia carriera. Se invece vogliamo nominare i designer che mi hanno affascinata già da quando ero studente, allora ripenso a Sottsass e Mendini che vedevo pubblicati sulle pagine di Domus che arrivava in Colombia insieme ad altre riviste straniere».
È bello che il suo pensiero corra subito ai compagni di viaggio.
L. S.: «Quando creo un oggetto, in fondo, non sono mai sola e, proprio per questo, il progetto non è mai solo mio. Non importa da chi sia partita l’idea ma senza il lavoro di équipe l’oggetto non prende vita: ognuno di noi ha i propri limiti e le proprie competenze, per questo abbiamo bisogno degli altri. Se penso ai lavori realizzati in America Latina non posso dimenticare degli artigiani cui sono legatissima, se penso a Homi mi viene in mente una grande squadra e non mi crea problemi riconoscere che è grazie a loro che ho ottenuto certi risultati».
Silvana Costa