Architetture patafisiche d’Oriente

Breve viaggio nell’Isan thailandese al confine con la Cambogia, disseminato di vestigia Khmer – appassionatamente vicine alla mitica Angkor.

Non essendo né archeologi né architetti, la nostra visita ai siti Prasat Phanom Rung e Prasat Muang Than (nella provincia di Buriram) e di Phimai Wat (nella cittadina omonima), partirà dalle minute faccende pratiche: come arrivare, dove dormire, cosa mangiare e come vestirsi. Cominciando dall’ultima questione, ovviamente il nostro dubbio non sorge da pretese di stile bensì dl fatto che molte guide consigliano maniche, gonne e pantaloni lunghi perché gli Wat (templi) presenti nei parchi archeologici sarebbero tuttora consacrati. Il risultato sono state visite sotto un sole cocente coperti come eschimesi al circolo polare, sotto gli occhi divertiti dei thai che passeggiavano in t-shirt. Unico segno di forme di venerazione ci sono parse le monete offerte alle statue all’interno di Phimai Wat perché – come per le indulgenze cattoliche – sembrerebbe che anche i buddisti acquistino il Nirvana a suon di spicci.
Nell’Isan, mangiare e dormire, sempre secondo le guide e le leggende “metropolitane” dei viaggiatori, dovrebbe essere quasi impossibile, persi nella giungla semi-malarica (così definita dall’efficientissimo centro di profilassi italiano), sul confine con la Cambogia. Tenendo presente che, al contrario, i tre siti distano parecchi chilometri dalla frontiera e le uniche distese a perdita d’occhio sono rappresentate dalle risaie (in questa stagione secche come paglia), ingiallite e affumicate (dato che qui si bruciano ancora le stoppie dopo i raccolti), si può soggiornare con tutta tranquillità nella città di Buriram (sede, tra l’altro, di un’università che accoglie studenti da una quindicina di Paesi, tra i quali Laos, Cambogia e Filippine; e, in gennaio, palcoscenico di un coloratissimo Festival Internazionale di Musica e Danze Folk, che inonda le strade di giovani vestiti nei più disparati costumi). Sulla stessa scia, per chi voglia visitare Phimai e risiedere comodamente in città, c’è Korat, coacervo di mezzi pubblici – treni e pullman per spostarsi più o meno velocemente a seconda del budget, con l’accorgimento di farsi trascrivere dalla receptionist, in lingua thai, il nome delle località che si vuole raggiungere (infatti, a parte queste ultime, i farmacisti e gli insegnanti, contrariamente a quanto si dice, i thailandesi non parlano inglese nemmeno a livello elementare. Però, sorridono e fanno segno di sì col capo, illudendo il turista). A Korat (che si chiama anche Nakhon Ratchasima per le guide, ma non per i locali), troverete anche hotel, ristoranti e per gli shopping addicted in stile figli dei fiori, i mercatini, mentre per quelli più cool, diversi centri commerciali. Del resto, viaggiare serve anche a sfatare i miti: le sirene, da vicino, o hanno le gambe o sono dugonghi.
Ma veniamo ai tre siti archeologici. Non essendo esperti eviteremo di descrivervi modellati e frontoni, spingendoci solo quel tanto da cogliere le analogie e affinità tra architetture mentali e costruttive, tra Occidente e Oriente, passato e presente. Veniamo al punto, se un italiano indica il numero tre con pollice, indice e medio, mentre un thailandese con medio, anulare e mignolo, significherà pure qualcosa.
Partiamo dalla serie: “nulla si crea, nulla si distrugge e tutto si trasforma”. I templi meglio conservati sono formati da una torre principale riccamente decorata e dal vihara, una stanza rettangolare coperta da un tetto di pietra. Al di là dell’analogia – comune forse a tutti i credi – di un paradiso situato in cielo e, di conseguenza, della scelta di verticalizzare gli edifici religiosi, salta all’occhio la somiglianza delle torri Khmer con il 30 St. Mary Axe, volgarmente detto The Gherkin (“il cetriolo” londinese di Foster e Shuttleworth). Date le rispettive epoche di edificazione, non risulta difficile immaginare chi si sia ispirato a chi.
Della serie: “tutto il mondo è paese”. Notevoli sia nelle torri principali che nei vihara e persino nelle gallerie della cinta muraria interna di Phimai Wat le coperture costruite con pietre – tuttora presenti – perfettamente modellate per reggersi le une alle altre senza l’ausilio di materiale legante. L’occhio percorre le verticali che si perdono nel buio pece di una cima irraggiungibile e la mente corre al thòlos miceneo della Tomba di Atreo – esempio altrettanto notevole di ingegneria edile – o alle coperture del villaggio di Su Nuraxi e di altri siti nuragici.
Della serie: “la matematica non è un’opinione”. Se nella geometria euclidea due parallele non si congiungeranno mai, è altrettanto vero che la mente umana, almeno a questo stadio, può concepire un numero limitato di forme. Ecco perché gli ingressi che si trovano lungo la cinta muraria esterna di Phimai Wat colpiscono la mente: non sono semplicemente portoni inseriti linearmente nelle mura, bensì strutture architettoniche cruciformi che, come la svastica buddista o nazista, rimandano a un dato di fatto: a simbolo uguale spesso corrisponde un valore diverso.
Della serie: “meno fai, meglio è”. Affascina, infine, l’estrema pulizia e linearità delle gallerie interne ed esterne, traforate da finestre squadrate in rapida successione e da portali (gopura) sorretti da pilastri e architravi imponenti, eppure armonici – palladiani oseremmo definirli. Dall’alto della collina, su cui si erge Prasat Phanom Rung – così come a Chichén Itzá o sulla torre sud di Notre-Dame – il cielo sembra davvero più vicino.
E per chi volesse ammirare anche gli altorilievi e la statuaria che adornava i templi, è d’obbligo – prima di lasciare l’Isan – un salto al museo archeologico di Phimai: tanto ricco e ben curato quanto desolatamente vuoto.

Testo di Simona M. Frigerio
Fotografie di Luciano Uggè


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