A perdita d’occhio

Francesca Alfano Miglietti propone una riflessione su “visione” e “immagine” delle opere d’arte. Il saggio riporta casi esemplari, tratti dal panorama contemporaneo, di creazioni che, scavando oltre l’immagine, svelano una ricca gamma di allusioni alla memoria, all’immortalità, allo scorrere del tempo, all’amore e all’impegno sociale.

A perdita d’occhio. Visibilità e invisibilità nell’arte contemporanea è il titolo del nuovo saggio di Francesca Alfano Miglietti – ai più nota con lo pseudonimo FAM – teorica, critica d’arte e docente di Tecniche e Tecnologie del Contemporaneo all’Accademia di Belle Arti di Brera.
L’autrice utilizza l’espressione “a perdita d’occhio” per parlare d’arte contemporanea riferendosi ai fattori che, pur non essendo visivamente manifesti, connotano il lavoro dell’artista quanto se non più di quello che viene mostrato. Un intento che FAM esplica chiaramente nell’Introduzione: “una serie di appunti sulle questioni sollevate dal problema della “visione”, attraverso le opere di un esiguo numero di artisti contemporanei, un piccolo saggio sulla visione che diviene un’indagine linguistica e che rimane imprescindibile da quella visiva, infatti il tema costante del testo è quello relativo allo “sguardo”, al “guardare”. Parole e opere che interagiscono spingendo il lettore a farsi obbligatoriamente anche “osservatore”” (pag. 17).
Condividendo pensieri ed episodi della vita dei protagonisti dei sette capitoli di cui si compone A perdita d’occhio FAM vuole stimolare la curiosità e l’emotività del lettore, spronandolo a studiare le intenzioni dell’artista e il suo rapporto con il contesto storico-sociale, andando oltre i consueti orizzonti mentali perché alla globalizzazione mediatica non corrisponde – per fortuna/purtroppo – una globalizzazione delle griglie interpretative di tipo psico-culturale.
In Immagine e visione, il saggio di Franco “Bifo” Berardi che apre il volume, si spiega come “la visione è un vedere partecipato, carnalmente vissuto, l’immagine è visibilità disincarnata, realtà visibile senza tattilità: vedere deprivato di ogni presenza fisica” (pag. 9). Una considerazione condivisa da FAM che, anche in questa occasione, sceglie di non avere immagine alcuna a corredo del testo: non per iconofobia ma perché, adottando la linea di pensiero di Gino De Dominicis, ritiene che la fotografia di un’opera d’arte non rappresenti l’opera d’arte quanto l’interpretazione che ne fa il fotografo. Se il livello di curiosità del lettore sarà sufficientemente elevato e se avrà la possibilità di ammirare dal vero l’opera citata, egli resterà piacevolmente stupito da quanto una simile esperienza possa arricchirlo ed emozionarlo.
Nei sette capitoli di A perdita d’occhio si succedono esempi di contaminazioni tra i linguaggi, realizzati da celeberrimi artisti contemporanei, nel tentativo di comunicare concetti che vanno oltre la sfera del visibile. I monocromi schermi di Fabio Mauri, per esempio, recano testimonianze di personaggi e brani di film d’epoca da utilizzarsi quali chiave di lettura per il presente.
Le performance – le prime cinque della durata di un anno e l’ultima di tredici anni – di Tehching Hsieh rappresentano un’apparente riflessione sul valore del tempo. L’artista di origini cinesi, immigrato negli USA dove vive clandestinamente per anni prima di poter essere regolarizzato, in realtà dimostra come non sia il passare dei giorni quanto il saper affrontare problemi quali la solitudine, il vagabondaggio o la mancanza di privacy ad averlo fatto maturare come uomo.
Gino De Dominicis cerca di bloccare il tempo ritenendo che sia l’espediente migliore per conseguire l’immortalità. E ci riesce! Con installazioni contestate dal pubblico come Seconda soluzione di immortalità (l’universo è immortale) presentata alla Biennale d’Arte di Venezia nel 1972, con mostre emblematiche come D’IO – un’idea invasiva dello spazio che vede De Dominicis riempire la sala espositiva con il solo suono di una lunga risata – o attingendo a piene mani dalla mitologia sumera e indiana questo artista sopravvive alla morte nonostante la pressoché totale assenza di monografie e fotografie sul suo lavoro.
L’eterno viaggiatore Jannis Kounellis ha una valigia ricca di storie e materiali per raccontarle: dal ferro alle ali di farfalla, dal carbone ai legumi secchi, dai cavalli ai quarti di bue che putrefacendosi aggiungono anche la componente olfattiva all’installazione. Kounellis racconta di migranti e della loro difficoltà di integrazione realizzando porte murate che dal 1969 ripropone in forme via via più sofisticate a impedire l’accesso alla sala espositiva vera e propria. Ultima tappa nota dell’artista è la Cina dove i mercatini locali sono miniera preziosa cui attingere per creazioni dall’alto potere evocativo delle vicende e delle credenze di quella terra misteriosa.
Oscar Muñoz si concentra invece sulla memoria e sulla sua perdita. Il colombiano dà vita a installazioni in cui mixa tecniche – fotografia, stampa, immagini animate e disegno – e materiali per dare concretezza ai ricordi nel tentativo di farli sopravvivere al trascorrere del tempo che, come l’acqua, tutto lava via.
I lavori di Félix González-Torres sposano importanti battaglie sociali che purtroppo lo vedono coinvolto in prima persona – muore il 9 gennaio 1996, non ancora quarantenne, sfiancato dall’AIDS – evocando la vulnerabilità del corpo umano e il suo progressivo decadimento sotto i colpi della malattia. Sono altrettanto simboliche, ma meno drammatiche, le Delocazioni di Claudio Parmiggiani dove polvere, fuliggine e piccoli frammenti fanno percepire all’osservatore l’assenza dell’oggetto che aveva occupato lo spazio fisico di fronte a loro.
Roman Opalka scandisce lo scorrere del tempo numerando ossessivamente le sue tele. Il progetto, intitolato OPALKA 1 – ∞, regolato da severe norme sia per la realizzazione sia per l’esposizione al pubblico, lo impegna dalla primavera del 1965 sino alla morte nel 2011. Un’idea elevata all’ennesima potenza da On Kawara con i Date Painting, dipinti eseguiti con cadenza quotidiana afferenti alla collezione Today Series.
FAM per la conclusione di A perdita d’occhio passa la penna a Filippo Timi che in Il mal dei ciechi snocciola una serie di aforismi sul rapporto, a lui più famigliare, tra “visione”, “immagine” e “rappresentazione”. Noi la imitiamo e prendiamo a prestito il numero 7: “Un’immagine arriva a noi già in personaggio, sta interpretando l’idea dell’immagine che ha di sé stessa” (pag. 89).

Silvana Costa

A perdita d’occhio
Visibilità e invisibilità nell’arte contemporanea
di Francesca Alfano Miglietti (FAM)
con un’introduzione di Franco “Bifo” Berardi e un testo di Filippo Timi
Skira, 2018
15 x 21 cm, 96 pagine, brossura
prezzo: 15,00 Euro
www.skira.net