A Bologna arriva la mostra evento destinata a creare consapevolezza nel pubblico sul catastrofico ciclo di eventi che caratterizzano l’Antropocene, la nuova era geologica in cui siamo entrati.
Dal giorno dell’inaugurazione, il 4 ottobre 2013, MAST – Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia ha inanellato una serie di strepitose mostre fotografiche dedicate al mondo del lavoro in ogni sua accezione, alternando alle immagini vintage della propria collezione reportage contemporanei di forte impatto sociale.
Anthropocene, l’esposizione in corso sino a domenica 22 settembre, si inserisce indubbiamente in questo filone, riportando come l’attività umana abbia trasformato in maniera irreversibile e irreparabile il volto del pianeta Terra. Un importante progetto di denuncia cui MAST ha deciso di dedicare il triplo della consueta superficie espositiva, distribuendo in tutto l’edificio progettato da Labics le fotografie di Edward Burtynsky, i filmati di Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier e le esperienze di realtà aumentata. Nell’auditorium è invece proiettato il documentario Anthropocene: The Human Epoch – gli orari sono consultabili sul sito della galleria – narrato dal Premio Oscar Alicia Vikander, terzo capitolo di una trilogia che comprende Manufactured Landscapes (2006) e Watermark (2013).
La mostra vanta la curatela di Urs Stahel, Sophie Hackett e Andrea Kunard, in rappresentanza rispettivamente di MAST e di due importanti istituzioni canadesi che hanno supportato il progetto Anthropocene: la Art Gallery of Ontario e il Canadian Photography Institute della National Gallery of Canada.
Il progetto trae il nome da Antropocene, il termine introdotto negli anni 80 dal biologo Eugene Filmore Stoermer per indicare l’era geologica in cui siamo entrati: secondo alcuni studiosi tale ingresso è databile a fine Settecento, con la rivoluzione industriale, mentre per altri risale alla metà del secolo scorso, con l’avvento del nucleare. Se ciascuna delle precedenti ere è caratterizzata da fenomeni naturali che nel corso di milioni di anni hanno trasformato l’aspetto e l’atmosfera terrestre, l’azione dell’uomo moderno – come suggerisce l’etimologia – ha velocizzato il processo, compiendo in pochi decenni profonde modifiche territoriali, strutturali e climatiche. Per esemplificare con pochi semplici dati la portata dell’impatto umano, ricordiamo che la popolazione terrestre è aumentata di 1 miliardo di unità in soli 12 anni mente la temperatura globale è salita di 4-5 gradi centigradi nell’ultimo secolo e mezzo. Nel 2000, Paul Crutzen, Premio Nobel per la chimica, dà l’avvio all’uso del termine Antropocene sebbene, per correttezza di informazione, c’è chi solleva obiezioni, sostenendo che tale situazione sia causata dal solo mondo occidentale e non dall’intera umanità, proponendo quindi definizioni che traggano origine da politica ed economia.
Il fotografo Edward Burtynsky e i documentaristi Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier cinque anni fa hanno unito le proprie forze in The Anthropocene Project con l’obiettivo di divulgare quanto sta accadendo nel mondo affinché ci si possa rendere conto del disastro in atto, proporre piccoli grandi gesti di salvaguardia ambientale e fare pressione sui governanti che sembrano indugiare troppo nello scendere in campo. La mostra e il documentario presentano in un equilibrato mix esempi virtuosi e territori incontaminati alternati a casi in cui il danno è ormai insanabile. Gli autori vogliono così sottolineare la perizia umana sia nel tutelare il pianeta sia nel distruggerlo.
Gli artisti del gruppo di Anthropocene per conferire autorevolezza al lavoro si sono rapportati con scienziati che li hanno guidati nei viaggi ai quattro angoli del pianeta e hanno affidato loro ricerche poi diventate soggetti di reportage tanto scenografici quanto inquietanti. Ci vergogniamo un po’ ad ammettere di essere attratti dall’iridescenza che acquista l’acqua del Niger inquinata dal petrolio (Nigeria, 2016), dal patchwork creato nel deserto di Acatama (Cile, 2017) dalle vasche di evaporazione del litio che sfuma dal blu al giallo o dagli immensi macchinari utilizzati per l’estrazione del potassio a Berezniki (Russia, 2017) che lasciano segni sulle pareti delle miniere paragonabili a immensi ammoniti fossili. La straordinaria bellezza che troviamo in queste immagini di sfruttamento intensivo delle risorse del pianeta è necessaria – spiegano gli autori in conferenza stampa – per catturare l’attenzione del pubblico e, informandolo su quanto sta osservando, creare consapevolezza del problema.
Hanno un che di apocalittico le immagini della miniera di carbone a cielo aperto in Vestfalia (Germania, 2015) dove, dopo che sono stati rasi al suolo interi paesi, scavatrici gigantesche mangiano letteralmente il terreno, cancellando sistematicamente la storia e la cultura di un ampio territorio. È inquietante osservare il connubio tra gli animali e le persone nel rovistare e nel vivere tra i rifiuti di Dandora (Kenya, 2016), l’immensa discarica alle porte di Nairobi. Quanta desolazione nelle monocolture di palma, intrichi talmente fitti per massimizzare il guadagno da non lasciare penetrare all’interno la luce del sole, impedendo lo sviluppo di flora spontanea che possa attrarre fauna selvatica. Anche l’Italia fa la sua parte, con le cave di Carrara (2018): sfruttate sin dall’antichità per il candore del marmo, in questi anni il ritmo dell’estrazione è salito a livelli esponenziali grazie all’impiego dei macchinari.
Lungo il percorso della mostra, immensi murales offrono ristoro alla vista e all’animo del visitatore con gli alberi secolari della foresta di Vancouver Island (Canada, 2018) e l’imponente barriera corallina che circonda l’isola di Komodo (Indonesia, 2017), dichiarata patrimonio UNESCO nel 1991. Avvicinandosi, a occhio nudo si coglie l’alta definizione delle immagini che consentono di vedere ogni singola foglia degli alberi e i brillanti colori della barriera, non percepibili normalmente ma catturati lavorando a 18 metri di profondità con una fotocamera subacquea dotata di flash ad alta potenza. Ogni gigantografia è ottenuta montando a computer decine e decine di fotografie perché gli autori sfruttano tutti gli strumenti che la moderna tecnologia offre loro per veicolare con spettacolare efficacia il dramma dell’Antropocene.
Se si sceglie invece di guardare i murales attraverso uno dei tablet a disposizione in ogni sala del MAST – o si scarica l’app di AVARA sullo smartphone – si scoprono link a filmati di approfondimento che svelano curiosità o mostrano la vita tra le strade di Lagos (Nigeria, 2016), la metropoli da 18 milioni di persone che con 6 mila nuovi abitanti ogni giorno ha strappato a Shanghai il primato di città con più rapida crescita nel mondo.
Le esperienze di realtà aumentata proposte al piano terra permettono di assistere all’emblematico rogo di 105 tonnellate di zanne di elefante e di una tonnellata di corni di rinoceronte, allestito per volere del Presidente keniano Uhuru Kenyatta nel 2016, come monito ai bracconieri, alle porte del Parco Nazionale di Nairobi. Sempre grazie al tablet si può interagire con Sudan, un superbo esemplare maschio di rinoceronte bianco, morto all’età di 45 anni; gli sopravvivono la figlia Najin e la nipote Fatu, ultimi esemplari della specie. L’estinzione di animali e piante è solo una delle catastrofiche conseguenze dello scellerato stile di vita dell’Antropocene. Per educare bambini e adulti i curatori, sempre al piano terra del MAST, hanno predisposto un’area destinata ad attività didattiche e un ricco manuale che aiuti a prendere dimestichezza con le terminologie scientifiche e con i dati quantitativi che definiscono la portata del fenomeno.
Mostrare come da stili di vita eccessivi possa nascere un problema ambientale è per autori e curatori il primo passo per arginare lo scempio in corso su scala planetaria.
Silvana Costa
La mostra continua:
MAST – Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia
via Speranza, 42 – Bologna
fino a domenica 5 gennaio 2020
orari: da martedì a domenica 10–19
ingresso gratuito
www.mast.orgAnthropocene
a cura di Urs Stahel, Sophie Hackett, Andrea Kunard
fotografie di Edward Burtynsky
film di Jennifer Baichwal, Nicholas de Pencier
organizzata da Art Gallery of Ontario, Canadian Photography Institute della National Gallery of Canada
in partnership con Fondazione MAST di Bologna
https://theanthropocene.org/