La giornalista Alessandra Coppa presenta ai lettori una raccolta di suggestioni ed esempi di buone pratiche per progettare le abitazioni del futuro.
SARS-CoV-2 è il nome di un microscopico virus che ha travolto il mondo intero: con la potenza di un uragano, senza risparmiare nessun angolo delle terre emerse, sta mietendo vittime e mettendo in ginocchio l’economia. Al termine di un anno difficile, in cui la natura ha drasticamente ridimensionato l’arroganza umana, la ricerca scientifica – o, più cinicamente, le case farmaceutiche – mostra una luce di speranza per il 2021 alle porte. Speranza che non implica un ritorno allo status quo ante bellum perché quando verranno appieno ripristinati i rapporti sociali, famigliari e lavorativi servirà gestirli con nuove modalità.
In questi mesi sui media si è assistito alla corsa a intervistare architetti e urbanisti per capire come si sarebbero dovuti trasformare case, uffici e città. Archistar globali, starlette locali e illustri sconosciuti si sono concessi alle luci della ribalta ma con le loro risposte hanno per lo più eretto un muro di ovvietà a nascondere la totale assenza di idee in merito. Alessandra Coppa, nella duplice veste di architetto e giornalista con un trascorso di docente di Storia dell’architettura contemporanea al Politecnico di Milano, ha voluto approfondire il tema in Architetture dal futuro, focalizzandosi, come ben enuncia il sottotitolo, sulle Visioni contemporanee sull’abitare.
Il volume si sviluppa in due parti, una introduttiva di taglio storico e una in cui l’autrice cede il testimone a 15 celebri studi di architettura: Antonio Citterio – Patricia Viel, Carlo Ratti Associati, Foster + Partners, Fuksas, Mario Botta Architetti, Mario Cucinella Architects, Mit Boston, MVRDV, Renzo Piano Building Workshop, Stefano Boeri Architetti, Studio Italo Rota, Studio Libeskind, Studio Odile Decq, UNStudio e Zaha Hadid.
L’excursus storico parte da lontano, dal XVIII secolo, con i visionari progetti di Claude-Nicolas Ledoux ed Étienne-Louis Boullée per compiere quindi un salto di oltre un secolo per inanellare i modelli di chimeriche città futuribili elaborati dai padri dell’architettura moderna: la Cité industrielle (1917) di Tony Garnier, la Ville contemporaine pour 3 milions d’habitants (1922) di Le Corbusier, Broadacre City (1934) di Frank Lloyd Wright insieme alla Città Nuova (1914) di Antonio Sant’Elia. Alessandra Coppa scende quindi di scala e si inoltra tra i disegni e i prototipi eseguiti dagli esponenti del Movimento Moderno a declinazione dell’idea di Le Corbusier di abitazione quale “machine à habiter”, di un ambiente domestico funzionale, dove siano ottimizzati spazi e azioni, replicabile infinite volte a guisa di un oggetto di produzione industriale, abbattendone i costi per renderla accessibile ad ampie fasce di popolazione.
Negli anni Sessanta la razionalità lascia il campo a quell’immaginazione che, combinata con le innovazioni tecnologiche, porta l’uomo in orbita e, poi, sulla luna. Innovazioni e materiali che permettono di ideare nuove forme dell’abitare ispirate alle capsule spaziali, compatte e iperaccessoriate, protagoniste nel 1972 della celeberrima mostra al MoMA di New York The New Domestic Landscape a cura di Emilio Ambasz.
Se la crisi degli anni Settanta induce a sviluppare utopie di stampo rurale, il panorama attuale è invece intrappolato in quello che l’antropologo Marc Augé definisce “presente immobile”. Un presente in cui gli architetti sembrano aver dimenticato il senso del “progettare” – verbo di derivazione latina traducibile letteralmente con “gettare avanti” – e intervengono con troppa leggerezza sul territorio, spesso assecondando acriticamente le volontà del cliente. Un edificio o un piano urbanistico finiscono per segnare indelebilmente il contesto su cui insistono, modificano la percezione dell’ambiente, i suoi percorsi e i suoi equilibri: progettare è perciò un gesto da compiere con consapevolezza e responsabilità verso le presenti ma, soprattutto, verso le future generazioni.
Vittorio Gregotti in un’intervista del 2017 a Gad Lerner per il programma RAI Ricchi e Poveri accusa i colleghi architetti “di essere diventati servitori senza critica della finanza, disposti a ottenere incarichi che riguardano solo l’immagine della cosa perché in realtà tutti gli elementi del progetto strutturale sono decisi da altre categorie di persone, completamente diverse: gli ingegneri, gente che si occupa di marketing o dell’analisi delle ipotesi di cambiamento delle funzioni e così via. Una volta che è pronta tutta questa mescolanza il grande immobiliarista chiede a un architetto di farne l’immagine. L’architetto diventa una sorta di scenografo”. L’anno precedente sempre Gregotti in Creatività e trasformazione – un volumetto che accosta il testo di una sua conferenza al Politecnico di Milano a una di Marc Augé – sottolinea una volta ancora che “non si può rinunciare alla propria responsabilità: cerco di capire che cosa, una certa società, vuole, pretende e desidera. Ma poi, al massimo, devo farmi giudicare sulla risposta, che però io costruisco, non loro” (pag. 23).
Alessandra Coppa sembra voler magnanimamente assolvere la debolezza dell’intera classe professionale contemporanea citando esempi di attenzione alle questioni ambientali e sociali manifestata nel corso di iniziative quali la Biennale di Architettura del 2016 diretta da Alejandro Aravena o la mostra Broken Nature curata da Paola Antonelli per la XXII Triennale di Milano del 2019.
Se è vero, come afferma Alessandra Coppa, che “tutte le grandi epidemie della storia hanno cambiato le forme dell’abitare sociale. La sanificazione delle città dopo la Spagnola degli anni Venti ha introdotto nella progettazione urbana nuovi criteri legati all’esposizione degli edifici, all’uso della luce naturale e alla nascita di quartieri modello, per rendere le nostre città più salubri” (pag. 33) allora il 2020 per Italo Rota può essere considerato “l’inizio di una nuova era che cambierà tutte le nostre vite, le nostre case, le città, ma soprattutto speriamo che cambi l’architettura, perché questo virus è un prodotto di una città e di un’architettura che non sono più adeguate” (pag. 120).
Nella seconda parte di Architetture dal futuro l’autrice mostra dunque come alcuni studi di architettura di fama internazionale siano andati al di là della mera speculazione teorica e abbiano dato forma compiuta alle proprie proposte di cambiamento. Professionisti che indubbiamente hanno avuto la fortuna di imbattersi in committenti illuminati ma che prima di tutto sono stati capaci di argomentare le proprie visioni con efficacia, sino al punto di farle condividere anche al cliente, come Renzo Piano insegna ormai da svariati decenni.
“Credo che l’habitat del futuro sarà uno spazio capace di accogliere in sé usi e necessità diversi: spazi che mostrano una ibridazione di funzioni” spiega Patricia Viel (pag. 43) che opta per la rottura dei rigidi modelli ottocenteschi a favore di luoghi flessibili che la famiglia usa per ritrovarsi e, all’occorrenza, per studiare, lavorare o ricrearsi. Le fa eco Winy Maas che reputa “sia necessario creare diverse dimensioni e tipi di alloggi, in modo che i cittadini abbiano la possibilità di scegliere come vogliono vivere, per creare ambienti in cui poter vivere insieme ma con una certa differenziazione, che consenta a ogni individuo di sviluppare la propria identità” (pag. 95). Proprio per questo motivo negli edifici di domani “parte della progettazione sarà affidata a chi li abita; a progettare tutto non sarà più un unico architetto” (pag. 83) aggiunge Mario Cucinella. L’architetto insiste quindi sull’urgenza di volgere l’attenzione alle peculiarità locali per creare edifici il meno impattanti possibile, edifici in cui la tecnologia non sia esibita ma divenga strumento per ridurre il consumo di energia – usata per il loro funzionamento ma pure per la loro costruzione – e le emissioni nocive.
Un approccio condiviso anche dallo studio Foster + Partners che svela alcune immagini della proposta presentata alla NASA nell’ambito del concorso bandito nel 2015 per un insediamento modulare su Marte. Un progetto lontano anni luce dal futuro prospettato dalla serie animata I pronipoti (1962/87) prodotta da Hanna-Barbera, un esercizio apparentemente ludico ma che in realtà ha aumentato la consapevolezza dei progettisti sui temi dell’autosufficienza energetica, dell’uso di materie prime disponibili in loco e del benessere psicologico degli abitanti costretti a lunghi periodi di isolamento forzato come nel caso dei recenti lockdown.
Il panorama tratteggiato da Architetture dal futuro è certamente multiforme sebbene punteggiato da elementi e parole chiave ricorrenti su cui varrebbe la pena soffermarsi per elaborare nuove strategie dell’abitare. Strategie che sicuramente facciano tesoro delle indicazioni che arrivano dal basso per poi lasciare il campo agli architetti per la loro configurazione finale: gli anni Settanta hanno ampiamente testimoniato come l’architettura partecipata fosse solamente una delle tante utopie in voga all’epoca.
Silvana Costa
Architetture dal futuro
Visioni contemporanee sull’abitare
di Alessandra Coppa
24 ORE Cultura, 2020
160 pagine, 21 x 26 cm, 60 illustrazioni, cartonato
prezzo: 32,00 Euro
www.24orecultura.com