Al Teatro Franco Parenti è andata in scena la riduzione teatrale di Il sogno di un uomo ridicolo, visionario racconto di Dostoevskij, sublimemente interpretata da Gabriele Lavia.
«Less is more» è la filosofia progettuale adottata da Mies van der Rohe quasi un secolo fa eppure, anche ai giorni nostri, il minimalismo si rivela la scelta vincente per far risaltare la purezza del talento. Quando c’è. A prescindere dalla situazione in cui esso si manifesti.
Tra i portatori di talento dei giorni nostri c’è Gabriele Lavia, Maestro indiscusso del teatro italiano, che, per nulla stanco del proprio mestiere, ogni volta che sale su un palcoscenico emoziona il pubblico con la propria recitazione. Abbiamo avuto modo di ammirarlo poche sere fa, applauditissimo ospite per l’unica replica di Il sogno di un uomo ridicolo nel teatro dedicato a Franco Parenti. “Un teatro alla vecchia maniera, come quello in cui andavo in gioventù, con le poltrone comode, il sipario rosso e il palcoscenico in assi di legno” ama sottolineare Lavia al momento dei ringraziamenti.
Lavia ci riporta indietro ai tempi in cui gli attori girano per le piazze, incantando con le storie che raccontano; poveri di mezzi e scenografie suggestionano il pubblico e lo trascinano sulle ali della fantasia in mondi distanti nello spazio/tempo. Come loro, Lavia, su un palcoscenico adornato di una semplice sedia in legno, con il solo potere della voce e della mimica corporea ci trasporta nella Russia di fine Ottocento, per farci rivivere il sogno che emoziona Dostoevskij al punto da indurlo a un cambio di vita. All’età di quarantasei anni, annientato dal peso di una società cui non sente di appartenere, lo scrittore abbraccia l’idea del suicidio e si organizza in attesa della giusta occasione per metterlo in pratica. Di ritorno da una serata trascorsa ad ascoltare con assoluta indifferenza i discorsi di amici, scorge una stella luminosa in cielo: è Sirio? Forse sì, oppure no, ma non importa: è indubbiamente il segno che è giunta l’ora di lasciare questo mondo. Si dirige a passi decisi verso la spoglia stanza in affitto in cui vive, non lasciandosi distrarre da nulla e nessuno; qui, sprofondato nella «poltrona, vecchia, decrepita, ma in compenso à la Voltaire», carica la pistola acquistata tempo prima. È un uomo ridicolo, si sente tale sin dalla giovane età, e lo studio, invece di avergli portato giovamento, lo ha solamente reso più consapevole della sua situazione. Sebbene determinato a porre fine a questo suo disagio esistenziale si lascia distrarre dal ricordo della bambina incontrata sulla strada di casa: era molto piccola, piangeva disperata, supplicandolo di seguirla al capezzale della madre morente ma lui l’ha scacciata frettolosamente. Ora prova molta vergogna per questo suo gesto, l’ansia aumenta, i pensieri si intrecciano, la mente si confonde e ben presto il corpo si abbandona al sonno.
Il sonno reca con sé l’angosciante sogno della morte. Sepolto nella terra, immerso nel silenzio e nei propri pensieri – quale errore invocare la morte se per l’eternità egli è poi costretto e rimuginare sulla sua inadeguatezza in vita! – egli viene strappato dalla sua sepoltura da un essere scuro che, volando nella notte, lo porta in un altro pianeta, verde e azzurro come la Terra. Lo deposita su un’isola, simile a quelle degli arcipelaghi greci, popolata da persone belle d’aspetto e di cuore che vivono in armonia tra loro e con la natura. In mezzo a loro egli è felice: non si sente più un uomo ridicolo ma, anzi, è guardato con ammirazione. Purtroppo il suo arrivo – paragonabile a quello di un virus in un corpo sano – lentamente, provoca profonde trasformazioni in questa sorta di società incontaminatà.
Il sogno, trascritto in forma di racconto da Dostoevskij nel 1877, alla guisa di un’apparizione divina, ha il potere di cambiare la vita del grande autore russo che decide di uscire dal sottosuolo per predicare una nuova visione della vita, votata a combattere corruzione, rabbia e degenerazione dell’essere umano. «Sono un uomo ridicolo. Adesso poi loro dicono che sono pazzo. Sarebbe un avanzamento di grado, se per loro non rimanessi pur sempre ridicolo come prima. Ma adesso ormai non mi arrabbio più, adesso li trovo tutti cari, anche quando ridono di me, allora, anzi, li trovo persino per qualche motivo particolarmente cari. Mi metterei addirittura a ridere anch’io assieme a loro, non di me stesso, ma per amor loro, se non provassi tanta tristezza a guardarli».
Lavia si appropria di questo prezioso racconto e ce lo offre con intensa semplicità. Non fa ricorso al nudo in scena come sempre più spesso vediamo fare, non vira nemmeno sul misticismo, rendendo platealmente palesi le sottili allusioni sparse dall’autore nel testo originale, come fossero indizi per accedere ad un livello di conoscenza superiore. Egli prende la parole del racconto – narrato in prima persona – e le rende vive, pulsanti, emozionanti semplicemente mettendo a loro disposizione la propria voce e il proprio corpo. Nulla più, nulla meno: un grande gesto di rispetto nei confronti dell’autore.
Il pubblico, assiepato ai piedi del palcoscenico si lascia quasi ipnotizzare dal pathos di Lavia e, come rapito dalla stessa creatura alata che trasporta Dostoevskij nel nuovo mondo, si ritrova a far parte della storia, reagendo con moti di dolore e meraviglia. L’inarrestabile applauso finale premia un artista straordinario e la sua capacità di farci riscoprire la bellezza del teatro. Quello vero, quello puro: quello che dovrebbe essere!
Silvana Costa
Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro Franco Parenti – Sala Grande
via Pier Lombardo, 14 – Milano
lunedì 11 maggio 2015
www.teatrofrancoparenti.it
Il sogno di un uomo ridicolo
di Fëdor Dostoevskij
con Gabriele Lavia
produzione Teatro Franco Parenti