Inequilibrio Festival 2018 | sabato, 30 giugno

Continua, a Castiglioncello, il Festival che abita i saloni e il parco di Castello Pasquini.
 
Forse estate. Possiamo dirla presente.
Castiglioncello, Castello Pasquini è rovesciato sul mare. Intrecci di verde e ceruleo, con qualche squarcio di sole. Cicale a perdita d’orecchio. È sabato, è giugno, fa caldo. Si arriva quassù da strade aggraziate, tra tetti e pinete che inseguono il Tirreno.
Undicesimo giorno di vita della kermesse. Stasera, dalle 18.00.
Nella saletta che chiamano soprannominata del Ricamo, Luca Scarlini proietta sul muro locandine primo Novecento. C’è un tavolo, e sul tavolo una boccia di vetro. Evocato il gioco divinatorio, i suoni e le immagini saturano la stanza. Se permettete parliamo di donne, le sempre obliate, che l’opera ripesca dalla Storia in tre serate-lezioni, è un evento che scorre limpido, senza simboli o ambiguità. La semplicità dei mezzi e del testo è bilanciata dal carisma dell’interprete – lo stesso Scarlini – narratore brioso, che spazia con disinvoltura da quadro a quadro.
Il tema è la danza, che stanotte sfoggia corona. Si esordisce con la teoria delle belle defunte, secondo il principio tardo ottocentesco della ballerina come eterea, magrissima creatura (al periodo romantico risale il passo dell’arabesque, con la gamba en air e l’aura di evanescenza che pervade il corpo). Assai breve è il passo tra la morta Giselle e il sangue sibilante di Suspiria. Il mito della femmina disincarnata, che si stiracchia sulla linea del tempo fin da prima delle donne angelicate stilnoviste, ha le sue crepe, che Scarlini disvela a colpi di brani e fotografie inconsuete. Si parte da Lola Montez, la finta spagnola, rea di aver sconvolto la pubblica morale europea con la sua Danza della Tarantola, nonché causa del declino di Ludovico I di Baviera; Mata Hari, più nota, che si spacciava per figlia di Shiva e mise al novero più di tremila versioni autobiografiche contrastanti; e le braccia della Fuller, danzatrice futurista, dimenate in un turbine di stoffe e impalcature elettriche. Non magra, non bella, ma dotata di quel particolare ingegno, l’americana ha tutto ciò che le occorre per giungere dove desidera: non le serve morire, tanto meno le serve amare. Le due componenti principali di quello che per le donne equivale a una sorta di romanzo obbligato – quel duo rimato: amore/dolore – non rientra negli interessi di queste figure muliebri, perfettamente capaci di adattarsi e inventarsi in toto, costruendosi intere identità. Anita Berber, fiamma tossica dei lokalen di Berlino; e la Baronessa Elsa, amica di Duchamp e probabile vera ideatrice dell’Orinatoio, più volte arrestata per le sue performance, veri e propri atti osceni in luogo pubblico.
Domani la seconda parte.
 
Poco più tardi, poco più avanti, un bianco padiglione, aggirato il Castello. Lo spazio della tensostruttura è vasto, ma piccolo alla profusione del suono. È nel Buddhismo, Kudoku: “estinguere il male”, “trionfare il bene”. Per Daniele Ninarello, arti giovani e nervosi, non è pensabile imbrigliare la danza in una coreografia precostruita. Le sue esibizioni scoppiano così, quasi captate a pelle, là dove la musica lo sfiora. Lo accompagna nell’esperienza il polistrumentista Dan Kinzelman, sperimentatore dell’elettronica, in un tessuto sonoro che vien su a strati, via via più potente e pagano, con una verve violenta che ricorda Wagner e i suoi mistici abissi.
Bassa luce, il sileno che balla e il sileno che suona. S’incontrano a metà strada, scatenando il caos. E se la musica al pieno della sua armonia si esprime col moto fluido, ecco che le discordanze richiedono corpi sofferti. E nel riflettore fioco, sul palco ridotto a caverna, Ninarello batte ali epilettiche, come un cigno in piena tortura. Flauti e clarinetti prendono corpo, gonfiano l’aria. La danza estatica, a tratti roteata come quella di un derviscio, agisce come un tramite tra le pulsioni del ballerino e quelle del pubblico, in un binomio di percezione/espressione che rasenta il Mistero orgiastico. Nel crescendo conclusivo, quando la stratificazione dei suoni si fa frenetica, soverchiante, si destano i riflettori sul palco, via via più accesi, fin quasi ad abbagliare gli astanti. La rinascita è attuata, la guarigione ultimata. A dispiacere è soltanto l’asetticità del palco e la sua vastità, che disperdono il potenziale comunicativo dell’opera, come afferma più tardi lo stesso danzatore, sempre in cerca di un contatto più ravvicinato col suo pubblico: sarà anche ridotto l’abbraccio dell’uomo, ma quello del gigante stritola.
 
Dal ricostruire al decostruire. Alle 21.00, si passa nel minutio auditorium. Spazio bianco, spazio cerebrale. Musica no, neppure stavolta. Si leva un brusio nelle orecchie, di quelli perturbanti che inquietano. Meytal Blanaru, danzatrice israeliana, sosta nella luce, vestita da bimba grigia – una gonna a pieghe, una camicetta. Sfila lenta le scarpe, che paiono macigni. «Sembra un’assassina», dirà dopo qualcuno.
Genie, così la chiamarono. I feral children come lei, cresciuti isolati o segregati, vanno in giro con la testa in una bolla. Restò tredici anni in una stanza buia, picchiata dal padre che le parlava a suoni animali. Pronunciò poche parole, a distanza di anni, per poi riperderle. La prima le arrivò in gola nel mentre che si allacciava le scarpe.
Blanaru non è Ninarello. Anzi, è l’esatto opposto. Se il danzatore italiano liberava, lei controlla e struttura. Non può esserci spontaneità nelle movenze di un sopravvissuto. Passi scattanti, l’incedere di una macchina guasta. Inespressiva in volto, come sono quei bambini, che gli stati d’animo li esprimono a gesti e teste sbattute. Genie si attacca al muro, rotola al suolo, artrofizza le mani. Scrive la Blanaru che: “in un’altra vita avrebbe potuto essere qualsiasi cosa avesse voluto”. E difatti non c’erano danni riscontrabili nella struttura cerebrale di quella bambina.
E dunque, dove finisce il precostituito e inizia la sovrastruttura? Dove sta la cesura tra l’individuo e l’entità senziente? Domanderemo sempre. D’altronde, è forse unicamente questo a costituirci in umanità.
Certa è una cosa: senza domande, stasera non saremmo quassù.
A domani.
 
Sharon Tofanelli
 

Gli spettacoli sono andati in scena nell’ambito di
Inequilibrio Festival:
Castello Pasquini – varie location
Castiglioncello (LI)
https://armunia.eu
 
sabato 30 giugno, ore 18.00
Se permettete parliamo di donne. Racconti in rosso e nero di donne avventurose della scena tra ‘800 e ‘900
di e con Luca Scarlini
produzione AttoDue
prima nazionale
 
ore 19.30
Kudoku
coreografia e danza Daniele Ninarello
musica dal vivo Dan Kinzelman
sax, percussione e supporti elettronici
drammaturgia Carlotta Scioldo
produzione Codeduomo e Novara Jazz
 
ore 21.00
Aurora
coreografia e performance Meytal Blanaru
musica Noam Dorembus
costume Yaarit Eliyahu
produzione SEVENTYSEVEN