João Ferreira Nunes si è laureato in Architettura del Paesaggio presso l’Instituto Superior de Agronomia da Universidade Técnica di Lisbona, ha conseguito il Master in Architettura del Paesaggio presso la Escola Técnica Superior d’Arquitectura di Barcellona e, dal 1991, è docente presso l’istituto dove ha conseguito la laurea – ma già nel 1989 fondava lo Studio di Architettura Paesaggista PROAP, che riunisce un grande gruppo di professionisti in un team pluridisciplinare e con distinti livelli di specializzazione in paesaggio. Tra i suoi progetti più importanti ricordiamo: Forte Fenestrelle a Torino, il progetto per il Parco Forlanini a Milano e il Parque do Tejo e do Trancão a Lisbona – ideato in occasione dell’Expò 98. Perché, come dice lui stesso, gli architetti “sono i disegnatori dell’anello, mentre il paesaggista si occupa del velluto sul quale posarlo”.
Lei è un paesaggista di fama internazionale, che spesso lavora in team con architetti altrettanto importanti per progetti complessi: come gestisce il suo ruolo?
João Ferreira Nunes: Ogni collaborazione è diversa e dipende dal rapporto personale che riusciamo a costruire con le persone con cui lavoriamo. Per esempio, non mi riesce di lavorare pienamente con architetti con cui ho un rapporto di profonda amicizia e, al contrario, ce ne sono altri, che frequento solo per motivi professionali, con i quali riesco a costruire rapporti più armoniosi e collaborativi. Il mio intervento inizia dalla conoscenza del sito, dalla prima idea di applicazione e di materializzazione di un programma. La nostra professione, infatti, ci permette di offrire un contributo all’architettura partendo dalla questione fondativa, dal suo rapporto con il territorio, il terreno, la topografia, la luce e il contesto.
Erroneamente, alcuni intendono la parte paesaggistica come un complemento secondario del progetto. Ci spieghi perché il suo non è un mero apporto estetico all’edificio.
J. F. N.: La progettazione degli spazi esterni è importante se non si vuole che l’opera architettonica galleggi nel mondo. Molti architetti lavorano su un foglio dove rappresentano unicamente ed esclusivamente l’edificio sul quale stanno lavorando senza valutare il rapporto che questo avrà con il contesto. Lo vedono come un oggetto che, casualmente, sarà realizzato in un dato luogo ma che, in realtà, avrebbe potuto essere proposto in qualsiasi altra parte del mondo. Se noi guardiamo, per esempio, certi progetti di Koolhass capiamo perfettamente che questo tipo di idea persiste tuttora. Viviamo di ripetizioni e di forme: di architetture destinate, tra l’altro, a ospitare funzioni importanti, che sono calate in contesti molto diversi tra loro: in Giappone come in Portogallo, in Francia piuttosto che in Cina. Per questi architetti il paesaggio è evidentemente un complemento di carattere secondario, finalizzato solamente a cercare di mettere in evidenza l’oggetto. Volendo usare una metafora potremmo dire che loro sono i disegnatori dell’anello, mentre il paesaggista si occupa del velluto sul quale posarlo.
Pensa che quest’ottica stia cambiando?
J. F. N.: Non siamo più in tempi di vanità formali e le persone capiscono che il mondo è un complesso di interazioni, mandando così in crisi l’idea dell’edificio come oggetto fine a se stesso: una riduzione, questa, che causa una perdita di qualità dell’architettura stessa e del rapporto che essa potrebbe costruire con le persone. Il paesaggio è fondamentale perché rappresenta la chiave di decifrazione di tutti i processi che si stanno sviluppando in quel momento e in quel luogo; possederla ci permette di prendere consapevolezza del tessuto di sistemi nel quale l’edificio andrà a funzionare e dei cambiamenti che la sua presenza potrebbe creare.
Ai suoi studenti cosa consiglia per approcciarsi alla pratica progettuale del paesaggio?
J. F. N.: La formazione è molto importante e l’ambiente didattico deve trasmettere un certo grado di consapevolezza. Chiunque oggi è in grado di accedere a un gran numero di informazioni ma solo la scuola può fornire i filtri necessari per poterle selezionare e impiegare proficuamente in un progetto. È importante che ci sia una guida in grado di riconoscere quali siano le nozioni errate e quali no, perché possedere troppe informazioni sbagliate è uguale a non averne nessuna. È inoltre importante comprendere che il paesaggio è una materia che coinvolge tante discipline diverse che interagiscono tra loro: per esempio, per sapere cosa sia una pianta bisogna conoscere la fotosintesi, la quale, per essere compresa, comporta la conoscenza della chimica. Se non sai che cos’è una pianta, non sai che cos’è un bosco; se non sai cos’è un bosco, alla fine ti trovi a creare i “boschi verticali”. È giusto chiarire che il voler donare, a chi abita al sesto piano di un edificio a Milano, la possibilità di godere della vista di alberi e piante è un bel gesto da parte del progettista – sebbene sia indubbiamente influenzato da una sorta di spirito commerciale. Ma è fondamentale chiarire altrettanto bene che non si tratta di un bosco. Quello è uno slogan! In conclusione, è fondamentale costruirsi una sorta di “scatola degli attrezzi scientifici” da impiegare in fase di progetto, basata sulla conoscenza della chimica organica, inorganica e molecolare: le quali ti aiuteranno a capire il perché una pianta è tanto diversa da una pietra, senza avere la presunzione di dire “No, non mi serve, perché sono un artista”.
Torniamo a parlare di Milano, lei ha vinto il concorso per la sistemazione del parco Forlanini: ci sintetizzi velocemente il progetto, visto che non è mai stato realizzato? Può altresì descriverci le linee guida di intervento in una zona strategica, come quella compresa tra l’aeroporto di Linate e il centro, a due passi dalla tangenziale?
J. F. N.: Il parco Forlanini, di circa 300 ettari, è uno di quei luoghi di Milano dove si possono ancora sentire gli echi del suo passato agricolo: vi ritroviamo tutto il sistema di irrigazione laminare, il sistema di drenaggio, le marcite – un paesaggio, una volta unitario, ormai frammentato dai terrapieni dell’autostrada. L’area di progetto, suddivisa tra diversi proprietari, è caratterizzata da una macchia centrale ampia e unitaria e da una fascia perimetrale che ospita, al contrario, una miriade di attività allontanate dalle zone più centrali. È un’area che, per le sue qualità, potremmo definire “un’isola”, grazie anche al sistema infrastrutturale perimetrale che racchiude questo luogo dimenticato – dietro le ferrovie, dietro lo scalo merci, dietro viale Forlanini (che porta all’aeroporto, n.d.r.) – limitandone l’accessibilità e creando una condizione di isolamento a due passi dal centro cittadino. La nostra idea era quella di celebrare il grande vuoto centrale e la presenza ancora netta del suo carattere agricolo, attraverso la trasformazione diretta dei grandi campi coltivati in radure a parco, riordinando un bordo disarticolato e disorganizzato, costruendo quello che avevamo definito il “grande manifesto della potenza dell’architettura del paesaggio”.
Cosa intende per “manifesto”?
J. F. N.: L’architetto paesaggista prende questi spazi residui, generati dall’incoerenza strutturale nell’impianto delle aree marginali al parco, e le ristruttura elevandole rispetto alla condizione di avanzi.
L’ACMA ha concluso da poco la consulenza con il MiBAC per la selezione del candidato italiano al Premio del Paesaggio del Consiglio d’Europa. Alle selezioni sono stati presentati tanti interventi puntuali, minori piuttosto che di paesaggio. Perché, nel nostro Paese, si rileva ancora questo atteggiamento?
J. F. N.: Secondo me, una tra le qualità del progetto di paesaggio è appunto la sua molteplice qualità scalare. La complessità del paesaggio emerge tanto nei suoi grandi elementi quanto nei suoi più piccoli componenti. Se un intervento è considerato come parte di un sistema non è mai insignificante: è un progetto aperto, in grado di innescare future e più grandi trasformazioni. Non è per la sua dimensione o per la sua umiltà che può essere considerato minore: se però ignora la sua capacità di essere parte di un insieme, possiamo effettivamente parlare di una minor qualità – la quale non dipende, in definitiva, dalla dimensione ma dall’atteggiamento. È importante, fin da subito, trasmettere questa impostazione culturale. In Italia purtroppo, a parte qualche sporadico, sebbene coraggioso, tentativo, non esiste una didattica che si occupa del paesaggio, anche se ci sono esempi come l’ACMA che rappresenta, in questo senso, un modello positivo.
E in Portogallo?
J. F. N.: In Portogallo è molto diverso. Possiamo dire che notiamo subito in quali Paesi ritroviamo questo genere di didattica e in quali non c’è.
Sempre rimanendo a Milano, parliamo del Parco Agricolo Sud – che è una fascia di salvaguardia fondamentale per l’area metropolitana. Quali strategie suggerirebbe per la sua conservazione?
J. F. N.: Nel 1940 si è disegnato il piano del Parco Sud di Milano, vincolando le zone da mantenere agricole e consegnando il resto dei terreni all’espansione della città. Nel tempo, in modo del tutto casuale, alcune particelle del parco si sono sviluppate mentre altre no: il punto di partenza è quindi l’uniformazione del territorio nel tentativo di mantenere vive le aree agricole. Servono investimenti perché non possiamo ridurre la conservazione al principio: “Lì è agricolo e agricolo rimane”. Concordo con le strategie di gestione attuate dall’Ente Parco Sud, basate sulla necessità di una nuova strutturazione a livello ecologico, di percorrenza, di continuità della mobilità e a livello visivo. Bisogna creare una connessione tra le aree verdi interne alla città e i campi, ma per fare ciò servono investimenti – che, al momento, non si vedono. Per fare un esempio pratico, all’interno del progetto per il Parco Forlanini si poteva sviluppare una sorta di grande corridoio che partisse da cascina Monlué, costeggiasse il Lambro e si connettesse con il parco Maserati.
Lei è portoghese: cosa cambia per lei lavorare in Portogallo piuttosto che in Italia o in qualsiasi altro Paese?
J. F. N.: In Portogallo adesso non c’è nulla, dunque è un Paese più facile da ridisegnare! Ogni luogo è un insieme di condizioni particolari e irripetibili: è questo l’aspetto più attraente del mio lavoro. Ci sono differenze non solo tra una nazione e l’altra, ma anche tra città e città: progettare a Milano è diverso dal farlo a Venezia. Mutano le abitudini delle persone, si riscontrano diverse condizioni di partenza – composizione del suolo, clima, fattori metereologici, conformazione orografica – e anche la disponibilità di mezzi è diversa. Ogni luogo, ogni problema ha necessità di essere compreso, letto, scritto, e il progetto è ciò che emerge da questa presa di coscienza, di consapevolezza, di decifrazione.
Intervenire negli stessi luoghi a distanza di anni quali suggestioni offre?
J. F. N.: Riallacciandomi alla risposta precedente, lavorare nel 1998 non era la stessa cosa che farlo nel 2012. Il mondo si trasforma spazialmente: orizzontalmente ma anche verticalmente, con una stratificazione di nuovi sistemi di segni. È piacevole osservare come un proprio intervento contribuisca alla trasformazioni delle abitudini di fruizione di un luogo, entrando a far parte di un sistema più complesso. Il problema nasce quando mi obbligano a realizzare una proposta rimasta in un cassetto per anni, come è successo a Lisbona quando hanno mandato in cantiere un progetto del 2005 e ci siamo trovati di fronte a un luogo che, in questi anni, è molto cambiato, passando da zona marginale a uno dei posti più frequentati della città.
Maria Chiara Sicari
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