Intervista a Steve McCurry

Incontriamo il celebre fotografo alla press preview della personale allestita nelle suntuose stanze della Villa Reale di Monza, che si aggira orgoglioso ed emozionato tra gli appartamenti nobili, compiacendosi di come i colori brillanti delle stampe intessano un dialogo con gli affreschi appena restaurati. Nemmeno in questa occasione Steve McCurry riesce a separarsi dalla macchina fotografica: la porta appesa al collo, accarezzandola a tratti con la mano come farebbe un cowboy con la pistola per assicurarsi che sia al suo fianco, pronta all’uso nel caso qualcosa attraesse il suo occhio vigile. Iniziamo dunque da qui il veloce scambio di battute che abbiamo con lui, tra un’intervista alla tv e un’altra al quotidiano locale.

Quali requisiti devono avere un soggetto o una scena per decidere di immortalarli?
Steve McCurry: «Non so come descrivere questo processo decisionale. Credo l’impulso mi scaturisca dal cuore: quando un soggetto mi emoziona, istintivamente punto l’obiettivo e scatto. È una sorta di gesto spontaneo che mi viene da dentro, più dall’animo che dalla mente».
 
Al di là dell’argomento trattato, sia una servizio posato o un reportage realizzato in condizioni estreme, le sue fotografie ci colpiscono per la sapiente combinazione di luce e colori. Questi fattori quanto intervengono a bilanciare il cuore nella sua scelta?
SMcC: «Quando inquadro una scena valuto sempre la componente luce prima di scattare. È importante che il soggetto sia correttamente illuminato per esaltarne la forza comunicativa. Questo vale sia per la luce naturale che artificiale, sul set o per le fotografie realizzate sul campo durante un reportage».
 
Il suo stile è decisamente riconoscibile. Si sente libero di variare – e ha mai avuto il desiderio di farlo – o se ne sente schiavo?
SMcC: «Non è che io quando lavoro sia conscio di perseguire un determinato stile. Mi limito a seguire il mio istinto e il mio gusto personale. Confesso che trovo divertente e interessante sperimentare cose nuove ma questo non è nulla più che un gioco, una variazione rispetto al mio consueto modo di vivere e osservare il mondo».
 
È divenuto famoso nel 1979 fotografando il territorio e le persone dell’Afghanistan prima dell’invasione russa, si legge che ha attraversato il confine con il Pakistan portando con sé rullini di pellicola cuciti nei vestiti. Nel 2009 le è stato consegnato l’ultimo rullino di pellicola Kodachrome prodotto e lei ne ha tratto la memorabile rassegna di immagini intitolata appunto Last Roll. Di queste, il ritratto di un uomo anziano della tribù Rabari è addirittura utilizzato come immagine iconica della mostra di Monza. È indissolubilmente legato alla pellicola tradizionale o utilizza anche le macchine fotografiche digitali? 
SMcC: «Il digitale, assolutamente! Senza alcuna esitazione! Il digitale è fantastico e comodo, mi permette di vedere immediatamente le foto che realizzo, di modificarle anche mentre sono in viaggio e inviarle in breve tempo in qualsiasi parte del mondo pronte per la pubblicazione».
 
Giovane neolaureato ha lasciato la Pennsylvania per visitare il mondo, partendo dal suo cuore sacro, l’India. Come immaginava sarebbe stato il suo futuro?
SMcC: «Fotografare è come se fosse qualcosa che, dentro di me, sapevo di dover fare. Una scelta di vita spontanea che mi veniva dal profondo dell’anima, alla quale non mi è mai sembrato ci potessero essere altre alternative di vita possibili».

Ha viaggiato molto realizzando reportage meravigliosi con i quali fa fatto sognare il pubblico in ogni parte del globo. Viaggiare è l’emozione della scoperta: col mondo si rapporta meglio a occhio nudo o attraverso la lente dell’obiettivo?
SMcC: «È indifferente, per me è praticamente la stessa cosa».
 
Il ritratto che fece a Sharbat Gula nel 1984, complice anche la pubblicazione sulla copertina del numero di giugno 1985 del National Geographic Magazine, è oggi paragonato addirittura alla Monna Lisa per il livello di notorietà raggiunta. Riesce a spiegarci razionalmente come è possibile trasformare una fotografia straordinaria in un’icona?
SMcC: «Il processo che rende una foto meravigliosa un’icona avviene spontaneamente. Penso che al massimo ci siano altre tre fotografie che sono diventate, in modo così naturale e spontaneo, delle icone. Una è quella della bambina vietnamita che corre nuda dopo essere stata ustionata con il napalm. Molto dipende dal numero di volte che questa foto viene riprodotta e messa a disposizione del pubblico per essere vista, entrando nella mente come identificativa di un luogo o di un periodo ma il fattore più importante è la sua capacità di affascinare la gente. Le fotografie sono soggette allo stesso processo che rende memorabile una canzone, un libro o un’opera d’arte: a prescindere dalla loro effettiva bellezza, si possono vivere e dimenticare o lasciare che, in maniera naturale, entrino dentro di noi a rappresentare un momento della nostra vita o della storia collettiva».
 
Quanto la casualità – o, se preferisce, la fortuna –  ha inciso sul suo lavoro?
SMcC: «Diciamo che tutto dipende da quanto tempo si passa a fotografare: come avviene nel gioco d’azzardo, chi punta una volta sola ha meno possibilità di vincere rispetto a chi punta in continuazione sullo stesso numero. In fondo, questo è l’unico modo per far sì che capiti la probabilità di avere la foto migliore».
 
Rimpiange una fotografia o un servizio che non le è riuscito di realizzare?
SMcC: «Tutti i giorni sono migliaia le foto che si sarebbero potute scattare e non si è riusciti a fare perché non si è arrivati in tempo, magari mancando il momento di una sola manciata di secondi o perché la situazione non consentiva di raggiungere un punto di vista adatto. In realtà, facendo una media di quanto realizzato nel corso della mia carriera, mi rendo conto che tante sono le foto non scattate e tante quelle che sono riuscito a portare a casa. È una questione di equilibrio e, comunque, le fotografie perse non devono perseguitarci perché la vita prosegue e serve organizzarsi per la prossima immagine da immortalare».
 
Tecnologicamente, dal primo dagherrotipo inventato nel 1839, le apparecchiature fotografiche si sono evolute sempre più in termini di maneggevolezza e prestazioni. In veste di inviato nelle zone calde del pianeta, cosa le sembra sia cambiato, in questi suoi trent’anni di attività, nel modo di svolgere questa professione?
SMcC: «Il modo in cui io affronto un reportage in simili situazioni è difficilmente pianificabile a priori. È imprevedibile, tanti sono i rischi e le problematiche che mi trovo ad affrontare ogni giorno della mia permanenza in quelle aree del pianeta. L’unica costante, immutata, è la necessità di usare la massima prudenza».

Silvana Costa


leggi la recensione della mostra

http://stevemccurry.com/