Come lavoro con gli attori? Con tutto il cuore
A pochi giorni dal debutto della sua nuova regia, Quartett – su testo di Heiner Müller – prodotta dal Metastasio; e dall’assegnazione dei Premi Ubu, ai quali è candidato nella categoria Miglior attore/performer, incontriamo Roberto Latini a Prato – in una giornata novembrina sferzata da un freddo tagliente. Latini racconta il suo bisogno di “uno spazio metafisico, un luogo dove far germogliare una serie di idee”; ma anche della necessità di “dare una dimensione lavorativa alle persone che fanno parte del mondo dello spettacolo”; di una distribuzione del Fus in base al merito: “bisogna superare quest’idea di chiedere la carità allo Stato”; ma, soprattutto, di un teatro con la T maiuscola, che sconfigga quel “pensiero addomesticato, che ha disabituato” il pubblico “ad avere anche solo un lampo di partecipazione”.
Candidato agli Ubu 2017 per il Cantico dei Cantici. Eppure come performer e non come regista. L’idea davvero innovativa sarebbe però quella registica, quella dello studio radiofonico in cui ambientare un poema d’amore contenuto nella Bibbia.
Roberto Latini: «Credo che il problema stia nelle sensibilità che si mettono in ascolto. Qualcuno ascolta e qualcun altro no. Ma le candidature ai premi sono questioni accessorie. Se si è candidati, naturalmente si è contenti. D’altro canto, può sembrare una banalità, eppure dico il vero: noi non facciamo spettacoli che hanno per obiettivo quello di attrarre consensi».
Anche Gianluca Misiti è candidato agli Ubu per il Miglior progetto sonoro – premio che vinse già nel 2015. Un bel riconoscimento per Fortebraccio Teatro. Non sentite la necessità di uno spazio vostro?
R. L.: «A Bologna lo abbiamo avuto (il Teatro San Martino, dal 2007 al 2012, n.d.g.), di cui sono stato direttore artistico per cinque anni e che rivendico di aver chiuso perché non c’erano né le finanze né l’energia per lavorarvi continuativamente. Potevamo occuparlo al massimo per quattro mesi l’anno, il resto del tempo cercavamo di costruire Stagioni, progetti speciali, anche distraendo il nostro percorso dalla sua vera natura, che è quella produttiva – e non di gestione. Se avessimo avuto accanto le istituzioni, forse avremmo continuato. In cinque anni la nostra esperienza è stata condivisa da molti artisti, che sono stati nostri ospiti ma a determinate condizioni – impossibili da mantenere quale modalità. Non volevo che diventasse sistema quell’occasionalità fatta di inviti ad amici o persone alle quali Fortebraccio Teatro avrebbe, comunque, dovuto ricambiare il favore. Un teatro, a dire il vero, non ci serve. Ci piacerebbe avere non tanto uno spazio fisico, quanto metafisico, un luogo dove far germogliare una serie di idee».
Dato che pone l’accento sulla necessità della libertà creativa, cosa pensa dei parametri quantitativi del Fus, che costringono a una produzione bulimica?
R. L.: «Alcune norme portano al logorio e si opera, come solo gli italiani sanno fare, sulla reinterpretazione delle regole. In questo sistema, dove una lettura ha lo stesso peso specifico di uno spettacolo con una Compagnia di dieci persone, al produttore non conviene la seconda opzione. È meglio investire sulla lettura o sul monologo perché, a livello di punteggio, si ottiene lo stesso risultato utile ai fini del finanziamento. L’esempio di Ubu Roi è illuminante. Nonostante fosse una produzione del Metastasio di Prato, all’inizio abbiamo fatto solo una ventina di repliche. Poi l’abbiamo riscattato nell’impegno, dato che di volta in volta il Met ci prestava scenografie e costumi, mentre il rischio d’impresa era a carico di Fortebraccio Teatro. In ogni caso, abbiamo toccato solo le cinquanta repliche in cinque anni, di cui cinque a Bogotà – ospiti di un Festival. Ovunque sia andato, lo spettacolo ha sempre ottenuto consensi pressoché unanimi, eppure i numeri sono questi».
Il problema della distribuzione, in Italia, sembra uno tra i più difficili da risolvere. Cosa pensa della necessità di creare una rete tra Compagnie e teatri minori?
R. L.: «Purtroppo, c’è bisogno di far rete. Purtroppo, c’è bisogno di ricorrere a soluzioni alternative, soluzioni patafisiche, che diano risposte alla coscienza della propria vita professionale. Si può diventare pazzi se si pensa di creare uno spettacolo per poi vederlo sul palcoscenico solo per poche repliche. Quello che si può fare è cercare di adoperarsi, inventandosi dei percorsi. Perché, purtroppo – e lo ribadisco – il sistema non garantisce alcun percorso produttivo. Ci sono spettacoli che getti via ancora prima di averli fatti. Pensiamo agli studi, riguardo ai quali io sono assolutamente contrario, oppure alla sequela di anteprime. Per non parlare del processo produttivo in tempi in cui le Compagnie sono costrette a debuttare nel giro di pochi giorni perché non è più possibile sostenere economicamente mesi di prove. Il problema non è la produzione annuale, quanto dare una dimensione lavorativa alle persone che fanno parte del mondo dello spettacolo, in modo tale che le Compagnie che si impegnano, giustamente, cinque mesi in una produzione, non debbano andare contemporaneamente in giro per mantenersi».
Cosa ne pensa, a oggi, del Fondo Unico dello Spettacolo – in vista dei decreti che faranno seguito alla nuova normativa, ossia al Codice dello spettacolo dal vivo, approvato a inizio mese?
R. L.: «Il primo errore che si fa è pensare che le produzioni siano finanziate dal Ministero. In effetti, non si tratta di un finanziamento ma di un contributo proporzionato alla capacità dell’artista o della Compagnia di essere in perdita. Ora, quando ci si rende conto del meccanismo, non si può che considerarlo ridicolo. Ma non solo, per avere maggiori fondi, io devo documentare il mio buco. In altri termini, devo dimostrare la mia incapacità così da avere accesso al contributo pubblico. Questo, per me, rasenta l’assurdo».
I fondi, quindi, andrebbero dati in base ad altri parametri?
R. L.: «Stabilito che l’attuale sistema è discutibile, bisognerebbe cominciare a dare i fondi pubblici, ossia a dare fiducia, a chi se li merita. Bisogna superare quest’idea di chiedere la carità allo Stato. Del resto, è difficile affrontare il discorso di come si giudichi la qualità perché si è persa l’autonomia della critica e, questo, è un problema davvero molto serio. Si è arrivati a un – mi si passi il termine – accaparramento di certe Compagnie da parte di alcuni critici e, a volte, gli artisti si sentono tirati da questa o quell’altra parte quasi fossero delle bandierine da aggiungere allo stendardo. Tornando alla qualità, a livello ministeriale si è molto giocato su questa incertezza, sul come si faccia a stabilire se uno spettacolo è migliore di un altro. Ed è per questa ragione che si sono aggiunti dei parametri relativi alla quantità, come se quella quantità potesse raccontare la qualità. La dimostrazione per assurdo è che uno spettacolo per un solo spettatore, chiaramente, non è detto sia peggiore di un altro ideato per migliaia di spettatori. Si tratterebbe, al massimo, di uno spettacolo fuori parametro, rispetto a uno per il Sistina di Roma. Inoltre, c’è il problema del precariato. Artisti e Compagnie sono in qualche modo distratti dal processo creativo, e costretti ad agire in modi che non mi sarei mai aspettato, ma che capisco perfettamente perché generati dalle necessità di un percorso di sopravvivenza – che non è neppure più artistico – e che non è nemmeno il proprio percorso reale né quello potenziale. Fortebraccio Teatro, forse perché non ha nulla da perdere, è riuscito a mantenere una sua coerenza. Non a caso, io raggiungo i 28,5 trentesimi per la qualità ma ho un punteggio, riferito alla quantità, decisamente basso. Ma quello non è il mio lavoro, appartiene a chi sta intorno a me, al sistema. Per ottenere i minimi a livello quantitativo devo fare uno sforzo che non è accettabile. Spesso le tournée sono costruite su spazi teatrali in cui, ciclicamente, si ritorna; aggiungendo due, tre piazze l’anno che vanno a sostituire quelle che, fisiologicamente, si perdono. Tornando all’aspetto quantitativo: lo spettatore non è un cliente. Se lo si considerasse tale, il prodotto – ossia lo spettacolo – dovrebbe dare concretezza a delle strategie. Questa idea non l’accetto: il teatro con la T maiuscola è altro, ossia quello con un’aspirazione».
Non crede che il pubblico identifichi quel teatro con la T maiuscola con il teatro borghese degli ex Stabili?
R. L.: «Purtroppo quello è quanto gli è stato propinato per anni. Spesso, però, il problema non è lo spettacolo che si sta dando di fronte a una certa platea, quanto l’accumularsi di tutti gli anni in cui quel genere di spettacoli è stato proposto a quelle stesse platee. Il pubblico è ormai stordito, assopito, da quella che considero la televisione dal vivo – proposta in troppi teatri; da un pensiero addomesticato che li ha disabituati ad avere anche solo un lampo di partecipazione. Un teatro consolatorio».
Nel nuovo Codice dello Spettacolo si ricomprende, accanto al teatro professionale, quello amatoriale. Molti suoi colleghi non apprezzano questo apparentamento. Cosa ne pensa?
R. L.: «A parer mio non è un fatto preoccupante. È una scelta dovuta alla necessità di ricomprendere nella legge quadro un po’ tutte le realtà presenti. Dato il Codice, saranno i decreti a stabilire l’interpretazione della legge stessa. Secondo me, l’importante è che si avrà finalmente un qualcosa a cui fare riferimento. Per quanto riguarda le problematiche che potrà sollevare, direi di riparlarne dopo l’approvazione del primo decreto. Al momento, il discorso è ancora troppo vago».
Con Quartett e, soprattutto, con Il teatro comico, produzioni, rispettivamente, del Met di Prato e del Piccolo di Milano, torna alla regia e a un cast, nel secondo caso, più ampio. Come regista come lavora con gli attori?
R. L.: «Con tutto il cuore».
Simona M. Frigerio