La cognizione del dolore

SCHWANENGESANG 021In prima nazionale, arriva al Metastasio di Prato lo spettacolo firmato da Romeo Castellucci. Amore per la liederistica schubertiana tra qualche luce e molte ombre.

Gli appassionati ricorderanno forse la splendida registrazione del lied D744 firmata da Elisabeth Schwarzkopf (soprano) ed Edwin Fischer al pianoforte del lontano 1952. O la recente (2015) Schwanengesang D957 (ciclo), eseguita dal tenore Peter Schreier e da András Schiff, maestro di insuperabile statura al pianoforte. In queste esecuzioni, la parte cantata ha una squisita vocalità popolaresca unita alla duttilità di un oggetto d’arte raffinato, mentre l’accompagnamento pianistico si trova sullo stesso piano espressivo del canto. La coloritura e il virtuosismo della voce, l’estensione vocale di soprano e tenore, si sposano felicemente con i preziosismi della musica, in continui rimandi che rendono complementari i due strumenti: la voce stessa e il piano. Perché, come scrive Alfred Einstein: “In Schubert, l’accompagnamento esprime tutto in una volta il sentimento, la descrizione e l’atmosfera”. Ascoltare questi lieder è abbandonarsi al sentimento senza mai cadere nel sentimentalismo.
Castellucci parte sicuramente da queste suggestioni per il suo spettacolo, Schwanengesang D744, che raccoglie undici lieder di Schubert scelti e posti in successione per dare continuità al racconto di una vita – dalla gioia spensierata degli anni giovanili con la scoperta dell’amore, fino alla perdita dei propri cari e al finale di ogni esistenza, con il suo carico di dolore per la definitiva separazione.
Ma quando la soprano comincia il suo recital si fatica a pensare di stare assistendo a uno spettacolo teatrale (di prosa). Mancano movimento ed espressività. C’è rigore e pulizia ma la scelta di un’impostazione statica e frontale raffredda l’emozione – forse perché anche la voce non sembra possedere quella morbidezza, estensione ed incisività necessarie ad assecondare la vasta gamma di stati d’animo sopra descritti. Con il prosieguo, la scena si movimenta. La parte finale con la soprano che si allontana sullo sfondo fino a scomparire – mentre canta Schwanengesang (Il Canto del cigno, appunto), seguito da Du bist die Ruh (Tu sei la calma, D776), Wiegendlied (La culla o Ninnananna, D498) e Abschied (Addio, D475) – convince maggiormente.
Accanto alla soprano, si nota un piano che fatica quasi a seguire e integrare il canto, mancando di quella brillantezza che dovrebbe riverberare nello stormir delle foglie, di quei preziosismi che dovrebbero colorire lo scorrere delle stagioni naturali e di una vita, scandendo la temporalità e, con essa, il susseguirsi dei piani emotivi, propri della sequenza esistenziale dei lieder scelti.
Ed ecco che soprano e pianista ci abbandonano. L’addio al pubblico suggella quello alla vita. La figura della cantante è sostituita da quella di un’attrice, la madre passa il testimone alla figlia. L’esistenza prosegue. Ma dal canto si passa alla recitazione. Le stesse parole, prima intonate, ora scorrono nella dizione della giovane interprete che, tra pose plastiche, ci riporta alla realtà manieristica del teatro, laddove etica ed estetica sembrano collidere. Finché qualcosa si rompe. L’attrice sembra smettere i suoi panni e voler incarnare un dolore autentico. Ci accusa direttamente: perché siamo seduti in platea a vederla soffrire?
Di fronte all’impropero ripetuto fino alla noia sorge, però, il dubbio. Lecito inveire contro chi si pasce del dolore altrui. Quando alla televisione, però, vediamo il giornalista che sforza la madre piangente a raccontarci cosa sente, apprendendo che la figlia è morta. O il reporter che invita il sopravvissuto a uno tsunami a raccontare cosa gli è successo, a poche ore da una tragedia che gli ha spazzato via casa e famiglia. Noi spegniamo o cambiamo canale. Ci rifiutiamo di assistere alla sceneggiata della tv del dolore, al salottino borghese dove si finge di informare mentre si nutre il peggior voyeurismo sadico da birra, divano e popcorn. Il dolore, come la morte, è un fatto personale. Non va mostrato, così come è impossibile condividerlo.
Ma a questo punto sorge il secondo dubbio. È l’attrice che, su un palco, tenta di svincolarsi dal proprio ruolo per farci sentire colpevoli o è solo la sua parte a prevederlo? Ovvia la risposta. La metateatralità non funziona. La quarta parete non cade. Bisognerebbe avere il coraggio di accendere le luci in platea, permettendo al pubblico di andarsene, così da dimostrare, a lei e a chi dietro di lei manovra, che noi non ci stiamo, non siamo né complici né conniventi con quella tv (o teatro) del dolore. Se si vuole scardinare la convenzionalità teatrale, bisogna tornare a Bene: lui insultava, ma di certo il pubblico non rimaneva passivamente seduto a sentirsi insultato. L’attrice, poi, rientra nel ruolo e i movimenti plastici tornano a dispiegarsi insieme a qualche scusa ovviamente insincera – in quanto in parte – per essersi lasciata andare e, su queste note, la luce si smorza e lo spettacolo finisce.
Se si vuole innescare il cortocircuito bisogna liberare lo spettatore, lasciargli la possibilità di interrompere la propria partecipazione a un rituale laico che pretende di autoimplodere e, alla domanda: “quanto dura lo spettacolo?”, inserire già nelle note di sala: “quanto vorrete”.

Simona M. Frigerio e Luciano Uggè

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Lo spettacolo continua:
Teatro Metastasio
via B. Cairoli, 59 – Prato

venerdì 30 e sabato 31 ottobre, ore 21.00
www.metastasio.it

Schwanengesang D744
concezione e regia Romeo Castellucci
musiche Franz Schubert
interferenze Scott Gibbons
collaborazione artistica Silvia Costa
drammaturgia Christian Longchamp
realizzazione dei costumi Laura Dondoli, Sofia Vannini
con Valérie Dréville, Kerstin Avemo (soprano), Alain Franco (pianista)
produzione Socìetas Raffaello Sanzio
coproduzione Festival d’Avignon, La Monnaie/De Munt (Bruxelles)
prima nazionale