“Tell me why”. Vi ricordate l’ossessivo ritornello dei Boomtown Rats, che si domandavano perché non amassero i lunedì? La stessa domanda, ossia “ditemi perché”, la pongo io, oggi, dopo avere assistito alla nuova versione di Lear firmata dal regista e coautore (con Stefano Geraci) Roberto Bacci.
Le spiegazioni che vorrei avere riguardano tre aspetti basilari. Il primo è perché affidare il ruolo di Lear a una donna – la peraltro eccellente, Silvia Pasello. Le spiegazioni che mi è capitato di leggere, ossia che: «Lear non è un uomo o una donna», è semplicemente una «creatura» che contiene sia il principio maschile che quello femminile (Roberto Bacci); oppure, mi sono chiesta: «Come siamo noi uomini di fronte al nulla di un potere non esercitato, non presente? Come siamo, insomma, di fronte al vuoto di potere?» (Sivlia Pasello), non convincono.
Innanzi tutto, perché Re Lear è una figura storicamente, psicologicamente e poeticamente maschile. Storicamente perché sia ai tempi del Bardo, che ai nostri, sono gli uomini a detenere ed esercitare il potere, in teatro come nella vita quotidiana. I pochi esempi di donne di potere, oltre a rifarsi a modelli maschili (Thatcher, Merkel) e a non appartenere al contemporaneo italiano, non si sono mai confrontate con il vuoto de “il potere logora chi non ce l’ha” di andreottiana memoria. Le donne, a volte, hanno esercitato un potere grazie alla propria bellezza o al fatto di essere le compagne di uomini potenti, ma se delle seconde possiamo trascurare le sorti, le prime potrebbero essere le protagoniste di Viale del tramonto di Wilder – non certo di una tragedia di Shakespeare.
Tornando a Lear, la sua è figura maschile anche psicologicamente. In primis, perché la richiesta di professioni d’amore da parte delle figlie ha chiare valenze edipiche (denunciate anche da una battuta di Cordelia). In secondo luogo perché Lear è, all’inizio della tragedia, un uomo tuttora prestante, che va a caccia con il suo seguito di cento cavalieri (un numero di uomini che, in quel tempo remoto, era paragonabile a quello di un esercito), fa bisboccia e si mostra un arrogante fagocitato dalle proprie illusioni di sovrano assoluto. Un potere maschile, il suo, che dovrà confrontarsi e scontrarsi con quello femminile (rappresentato da Cordelia), inclusivo, votato all’accettazione di sé e del proprio ruolo, materno. Vedere una figura insieme minuta e accogliente come quella di Pasello mentre chiede l’affetto delle figlie suscita sensazioni diametralmente opposte a quelle che dovrebbe imporre l’arroganza del potere di Lear. Se la madre può essere in disaccordo con la figlia, lo sarà per gelosia, per invidia della sua giovinezza, ma la madre non chiederà l’atto di sottomissione.
E infine Lear è figura poeticamente maschile perché insieme padre e tiranno, soldato e cacciatore che si dovrà spogliare del potere sovrano per scendere negli abissi della sofferenza umana (come l’everyman delle moralities), fino a giungere alla riconciliazione degli opposti, dello yin con lo yang – che però non sarà il suggello della tragedia. Dato che sarà l’odio che, nel finale, prenderà nuovamente il sopravvento e, con esso, la brutalità e la violenza maschili. La vendetta per la morte della figlia Cordelia fagociterà lo stesso Lear in quell’abdicazione al senso di pietās espresso in: «Maledetti voi tutti… Ho ucciso la canaglia che t’impiccava!». Sarà in un abisso di dolore senza redenzione che affogheranno Lear e l’intera umanità.
E qui veniamo al secondo perché. Ossia per quale ragione la traduzione del testo di Shakespeare si è voluta così impoetica, quando Harold Bloom ritiene – e giustamente – Re Lear il culmine del canone shakespeariano, ossia della concezione drammaturgica e poetica del Bardo. Il discorso linguistico, del resto, non è mai pretestuoso. I nobili utilizzano il blank verse e solo la pazzia (falso/vera) di Lear lo porterà a servirsi, in precisi momenti, della prosa. Questo gioco linguistico raffinato non solo informa il pubblico del processo di deperimento che sta subendo la psiche del protagonista e della condizione sociale dei personaggi, ma è ampiamente utilizzato da Shakespeare (unitamente all’eufuismo) per connotare anche a livello linguistico ogni carattere. La falsità dei cortigiani; la doppiezza dei traditori; le battute, le scurrilità e i doppi sensi del fool non si possono apprezzare pienamente se non si approfondisce proprio il discorso della traduzione – che deve valorizzare le differenze tra prosa e poesia e, nel caso, trasporre in maniera contemporanea ciò che risulterebbe incomprensibile al pubblico odierno (soprattutto le battute comiche).
L’ultima domanda coinvolge la struttura drammaturgica della tragedia. Sicuramente molti geni teatrali (da Testori a Bene, fino a Danio Manfredini) hanno saputo interpolare testi e linguaggi, asciugare monologhi e tagliare scene ormai povere di significato per restituire opere del Bardo che ne conservino la forza universale, la brillantezza poetica e la carica emotiva. Hanno dimostrato come less is more sia massima imprescindibile del capolavoro. Come operare in togliendo esalti l’essenzialità del messaggio shakespeariano. Come lo straniamento di matrice brechtiana possa essere basilare a una rielaborazione del testo che colpisca lo spettatore di oggi con la stessa forza con la quale il Bardo sapeva catturare i propri contemporanei. Ma il didascalismo di scene e dialoghi di questo Lear lascia basiti. Le trame non si intrecciano in quella mirabile fusione che fu l’originale, ma scorrono in parallelo. Il re non è più figura centrale, non ha la forza e il carisma per unificare a sé la grande massa di fatti e misfatti. Mentre l’evoluzione dei personaggi sembra schematica, a tappe puntuali, come l’esposizione della sinossi di una tragedia (anziché la messinscena della tragedia stessa).
Convincono, al contrario, l’atemporalità della scelta costumistica; l’essenzialità delle scenografie che si risolvono semplicemente in una serie di sipari che giostrano bene tempi e movimenti; le luci precise ed espressive. Bella, come sempre, l’immagine firmata da Cristina Gardumi – che si conferma giovane artista da tenere d’occhio.
Simona M. Frigerio
Lo spettacolo continua:
Teatro Era
Parco Jerzy Grotowski
via Indipendenza – Pontedera
fino a domenica 10 aprile
orari: giovedì ore 10.00, domenica ore 18.30, gli altri giorni ore 21.00, lunedì riposo
ww.teatridipistoia.itLear
di Stefano Geraci, Roberto Bacci
liberamente ispirato a William Shakespeare
regia Roberto Bacci
con Silvia Pasello, Caterina Simonelli, Silvia Tufano, Maria Bacci Pasello, Tazio Torrini, Savino Paparella, Francesco Puleo, Michele Cipriani
assistente alla regia Francesco Puleo
progetto scene e costumi Márcio Medina
musiche originali Ares Tavolazzi
luci Valeria Foti e Stefano Franzoni
immagine Cristina Gardumi
realizzazione costumi Fondazione Cerratelli in collaborazione con il Laboratorio di Costumi e Scene del Teatro della Pergola realizzazione scene Scenartek
consulenza musicale Emanuele Le Pera e Elias Nardi consulenza storico-musicale Stefano Pogelli
produzione Fondazione Teatro della Toscana
atto unico di un’ora e 50 minuti