Esce per Fausto Lupetti Editore il bel volume dedicato al primo curatore autore del secondo Novecento. Scritto con affettuosa partecipazione dal critico d’arte Ambra Stazzone, con puntuale postfazione di Giacinto Di Pietrantonio.
Harald Szeemnan. L’arte di creare mostre è un libro di piacevole consultazione, fruibile a diversi livelli di competenza, essendo ricco di spunti – per i semplici curiosi; corredato di belle fotografie in bianco e nero e di un’interessante intervista – per i frequentatori di mostre; con idee pratiche su come realizzare un’efficace condivisione tra visitatore e opera – per gli appassionati; e preciso e puntuale nel ricostruire non solamente la figura di Szeemann ma anche quel processo che va “dall’idea al chiodo” – per gli studiosi.
Dopo un’interessante introduzione che ripercorre brevemente la storia dell’allestimento delle mostre e spiega anche cos’è una temporanea e come si differenzi da una permanente – con accenni alle esperienze dei movimenti artistici dei primi del Novecento – il libro offre una bella intervista a Harald Szeemann (curatore indipendente, che ha creato e rivoluzionato questa stessa figura), scritta con linguaggio colloquiale e, quindi, facilmente accessibile.
Un racconto mai pedagogico e tantomeno noioso dal quale emerge l’approccio di Harald all’arte (che va al di là del possesso, sostituendo l’opera in quando oggetto con il fare arte in quanto azione valida a produrre cambiamenti utopici, ossia socio-politici); il suo rapporto con gli artisti (simile a quello del critico di compagnia che è emerso, negli anni Settanta, in teatro e del quale è stato forse massimo esempio il connubio Quadri/Ronconi nel Laboratorio di Prato); il suo fare autorale (ossia il pensare e costruire mostre partendo da una poetica personale); il grande rispetto per il visitatore (per il quale vuole “fare della mostra un fenomeno sensuale” e, quindi, un’esperienza fruibile senza bisogno di spiegazioni e accessibile emotivamente grazie alle atmosfere create con un utilizzo pensato e ogni volta originale degli spazi).
Segue una disanima accurata delle maggiori mostre di Szeemann, raccontata non con piglio professorale, bensì con l’intenzione di mostrare al lettore (curioso, studioso, o entrambi) l’intero processo, riportando anche le critiche positive o negative ricevute a suo tempo da Szeemann e i ricordi del curatore riguardo a ogni specifico evento.
Non volendo togliere al lettore il gusto della scoperta, ci soffermeremo solo su alcuni principi generali che emergono dalle pagine – scritte con cura e dalle quali traspare il rapporto di stima e amicizia tra l’autrice del libro e Harald – che ci hanno particolarmente colpiti.
Innanzi tutto, l’idea di Szeemann di arte come fare (tanto è vero che molti artisti invitati alle sue mostre creavano azioni in situ o opere ad hoc). E in un momento in cui l’arte diventa sempre più business, investimento e gioco al rialzo, creazione di nomi a fini meramente speculativi, in un’epoca in cui fare un graffito è reato ma un Basquiat vale milioni di dollari, è piacevole scoprire che Szeemann ha sempre difeso la scelta di allestire – o mettere in scena, diremmo noi – mostre, partendo da un’idea forte e non da un nome conosciuto, accostando e facendo dialogare insider/outsider, oltre a forme che, a prima vista, sembrerebbero non aver nulla a che fare con l’arte. In parole semplici, Szeemann in Science Fiction (Berna, 1967), ad esempio, non espone solamente quadri e sculture bensì fotografie, installazioni, abiti, fumetti, illustrazioni e robot da collezione. Cerca, inoltre, di creare una serie di eventi collaterali che completano e dialogano con la mostra in sé. E nelle esposizioni tematiche (che non gravitano, naturalmente, intorno a temi quali i fiori o il paesaggio toscano), con piglio enciclopedico ricostruisce universi di senso, come in Le macchine celibi (varie location, 1975-77), che presenta realizzazioni – anche tecnologiche – di vario genere, accomunate dalla medesima tensione utopica verso un ideale di autosufficienza maschile o non riproduttiva, bensì creativa (con “opere” quali il modello della scena finale di Surmâle di Jarry, creato appositamente da Jacques Carelman, o la macchina kafkiana di tortura realizzata dall’officina Loeb).
E ancora, proprio perché l’arte è agire e per lui il discorso mercantilistico ma anche i numeri da mostra di richiamo non contano, in Art Brut (Berna, 1963) sceglie di esporre disegni e dipinti di psicotici, che rintraccia nelle collezioni degli ospedali di Berna, Losanna, Verona e Parigi. Sempre in questo solco, scopriamo che nel periodo in cui in Europa si espone ovunque – per fare cassetta – quella che Enrico Arosio definisce “la trimurti obbligatoria del 1990 viennese, Klimt-Schiele-Kokoschka”, Szeemann propone la sua originalissima Austria visionaria (Bruxelles, 1996-98), apogeo dell’ossessione, proponendo ad esempio i lavori di uno sconosciuto, Aloys Zötl – pittore ottocentesco di animali, precursore del Douanier Rousseau.
Artefice della mostra come un regista teatrale, un metteur en scène, Szeemann ha raggiunto apici quasi insuperabili in 12 Environments (Berna, 1968), trasformando lo stesso contenitore, ossia un edificio pubblico – la Kunsthalle di Berna – in opera d’arte, grazie a Christo, che la ricopre interamente; e in When Attitudes Become Form (Berna, 1969-70), dove un insieme di artisti è invitato a oltrepassare i limiti fino a raggiungere concettualmente l’Anti-Arte, arrivando alla distruzione materiale dello spazio (Richard Serra, ad esempio, con i 210 chili di piombo fuso versati contro un muro interno che, in Splash Pieces, rivendica l’artisticità del gesto in sé; oppure Michael Heizer, che distrugge parte del vialetto della Kunsthalle con una palla da demolizione).
Percorso utopico, rivoluzionario, anticipatore, anarchico, creativo, quello di Szeemann che non smette di stupire dalla prima all’ultima pagina, dal racconto della mostra dedicata al nonno al cammino d’iniziazione della Biennale di Venezia del 1999.
Se in chiusura di libro resta un po’ l’amaro in bocca è solo quando si scopre che l’archivio di Szeemann – basilare per chi voglia fare il curatore oggi ma anche per chi semplicemente desideri guardare alle mostre con occhio diverso – è stato venduto al Getty Research Institute di Los Angeles e, sebbene non si dubiti della professionalità di tale istituzione, suscita perplessità il pensiero di vendere le idee e le esperienze di un artista – perché tale era Szeemann nel suo campo – che rifuggiva l’idea di possesso e, soprattutto, che una parte del patrimonio europeo – così utile a tutti noi che lavoriamo nel campo – sia finita oltreoceano.
Simona M. Frigerio
Harald Szeemann. L’arte di creare mostre
di Ambra Stazzone
postfazione Giacinto Di Pietrantonio
Fausto Lupetti Editore, 2014
pagine 260
prezzo 14,50 Euro
www.faustolupettieditore.it