Ancora un’ultima resa

Appuntamento al Giglio di Lucca con la compagnia Teatro del Carretto: torna il dolore universale in L’Ultimo Chisciotte.

Li conosciamo così bene, ormai. Sappiamo con sufficiente sicurezza, lo possiamo anticipare, che troveranno il modo di porsi in equilibrio tra la carnalità e il sublime. Il Teatro del Carretto è sogni materici; il Teatro del Carretto è moto inconsulto, sempre un po’ grottesco, sempre un po’ brillante; è lo sciocco tragico, il ridicolo eroico. In una parola, è garanzia.
Un debutto atteso, quindi, quello al Giglio lucchese. L’Ultimo Chisciotte, la più recente fatica della Compagnia, per la regia di Maria Grazia Cipriani, ne conferma una volta di più la poetica, tutta volta a sviscerare la civiltà e i suoi miti profondi, già definita in opere quali Amleto, Pinocchio, Le Mille e Una Notte, e la sperimentalistica Iliade, nella quale il corpo degli artisti si raffrontava all’impiego di costrutti meccanici.
L’opera cervantiana è un’indiscussa conferma alla fisicità umana, sebbene non manchi il tipico tratto artigianale del gruppo, che resta fedele alla tradizione del retroscena esposto. Ridotta come sempre ai minimi termini, la scenografia è un ritaglio di vesti appese, intima traccia di umanità trascorsa, che la Compagnia aveva già utilizzato ne Le Mille e Una Notte – nel dramma delle camicie insanguinate a causa del femminicidio e degli stupri etnici.
Vesti di vita, ma anche di finzione. Vesti attoriali, che calano a fine spettacolo, come a supplire al sipario che non c’è. E sotto un palco-cantiere, destinato a sporcarsi progressivamente di rosso: man mano che la tragicomica avventura – più volta al dramma che al riso, va detto – si dispiega – grazie a secchiate di polvere scarlatta impresse sul pavimento. Tracce di sangue, di fervore esploso. Il tipico tratto del gruppo, che gioca frequentemente su un delicato minimalismo, su immediate sensorialità e sull’uso di quel linguaggio universale che è il simbolo.
Ed ecco il condottiero. Allampanato, di arti nervosi, si presta all’occhio con l’estetica delle illustrazioni di Daumier e Dalí. Sconfitto fin dalle prime battute, è biasimato da un Sancio-crisalide, ancora in divenire; l’intero dispiegarsi della trama, i cui toni più pessimisti sono stati accentuati, si asciuga nella mimica del Chisciotte, vero e proprio prigioniero di un teatro, anzi di tre: quello fisico e reale, di cui noi soli siamo consapevoli; quello sociale, che mina a togliergli la maschera di cid e applicargli quella di vecchio pazzo; e finalmente la sua stessa follia, alimentata dalle trovate di Sancio, per la quale la purezza di una veste bianca può sostituire la comparsa di Dulcinea.
Il taglio affilato di certe luci e la schematicità dei costumi permettono ai corpi di spiccare, conferendo al gesto la gravitas di una scultura. Lo stesso nascondimento del colore, involato nei toni neutri, lavora in questa estrazione della forma. E quando in una cromia tanto cheta qualcuno infrange una chiazza di scarlatto, l’impatto sull’occhio non può che essere intenso.
Alla fragilità parca di movimento del Chisciotte fa da contraltare la danza del ballerino – soltanto un esempio del sincretismo artistico del Teatro del Carretto; indossa via via tutti i ruoli, dalla seduttrice al cavaliere alter ego – e qui si dispiega un duello infinito, sulle note di un bolero estenuante, che ha indubbiamente appesantito lo spettacolo.
Anche il comparto sonoro risponde al minimalismo della Compagnia, cedendo sovente il passo al silenzio, o a farneticamenti a fil di voce: Sancio riflette, sbeffeggia il padrone e maggiormente se stesso, ormai ridottosi allo stesso grado di outsider, suo malgrado. Chisciotte è d’altro canto lento nel parlare: parole snocciolate distintamente, come sassate nello specchio d’acqua. Tra l’uno e l’altro, a distanziarli, è sempre il vuoto del proscenio. A intervallare i loro dialoghi, improvvisi brani situazionali o scatti di suono che ci scuotono brutalmente, rigettandoci nella sensorialità dell’opera.
E come di consueto, è un suono a fornirci la rivelazione finale, ultima pressione sul tasto del pessimismo: mentre Sancio ci canta di sogni e speranze su un Chisciotte morente, calano le vesti-sipario; e una cacofonia di morte e bombe satura lo spazio, vanificando gli ideali dell’eroe tragico.
L’Ultimo Chisciotte s’inserisce perfettamente in quello che è lo stile classico del Teatro del Carretto: corpo, artificio, brutalità sensoriali, interdisciplinarietà; e l’onnipresenza del mito, già esemplificato nella scelta dell’ennesimo caposaldo della letteratura europea. Nonostante la sua efficacia nell’illustrare lo sfinimento del combattimento, la sezione del bolero avrebbe meritato un accorciamento. Per il resto, siamo di fronte alla consueta qualità del gruppo, fedele a se stesso e al suo messaggio insieme utopico e amaro.
Nessuna speranza, neppure quest’anno. E ci piace così.

Sharon Tofanelli

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro del Giglio
piazza del Giglio, 13/15 – Lucca

venerdì 23 e sabato 24 novembre, ore 21.00; domenica 25 novembre, ore 16.00
www.teatrodelgiglio.it

L’Ultimo Chisciotte
liberamente tratto da Miguel De Cervantes
adattamento e regia Maria Grazia Cipriani
con Stefano Scherini, Matteo De Mojana e Ian Gualdani
assistente alla regia Jonathan Bertolai
musiche Giacomo Vezzani
fonica Luca Contini
luci Fabio Giommarelli
scenotecnica Giacomo Pecchia
collaboratrice alla costumistica Rosanna Monti
segreteria organizzativa Michela Betti
produzione Teatro Del Carretto
prima nazionale
www.teatrodelcarretto.it