Al MAST, lo scenografico teatro bolognese della fotografia, sino al 16 settembre va in scena il talento di W. Eugene Smith nel centenario della sua nascita.
Il penultimo giorno del 1918, a Wichita in Kansas, nel centro esatto dell’America settentrionale, nasce il fotodocumentarista William Eugene Smith. L’interesse per la fotografia si manifesta sin in giovane età e il talento pure: a sedici anni Smith già pubblica su riviste i suoi scatti. Il ragazzo decide pertanto di perfezionare la tecnica iscrivendosi ai corsi di fotografia dell’Università Notre Dame in Indiana ma dopo un solo anno abbandona preferendo farsi le ossa sul campo, a New York, dove ha modo di mettere il proprio obiettivo a disposizione di svariate redazioni. Durante la Seconda Guerra Mondiale Smith invia reportage da Saipan, Iwo Jima e Okinawa; dal 1947 al 1954 racconta l’America minore sulle pagine di Life in documentari dal titolo bucolico come Il medico di campagna, Il villaggio spagnolo o La levatrice; al culmine della fama nel 1954 entra a far parte dell’agenzia Magnum e inizia a la carriera di freelance.
La mostra bolognese racconta la prima grande commessa ricevuta da Smith come libero professionista, un lavoro cui la sua esasperante pignoleria – quella stessa pignoleria che lo aveva portato ad andarsene da Life sbattendo sonoramente la porta – lo obbliga a applicarsi per tutto il resto della vita. L’incarico in realtà prevede il fotografo passi un paio di mesi a Pittsburgh per eseguire un centinaio di scatti che restituiscano il ritratto della capitale industriale degli USA. Smith si affascina alla missione e la ricognizione fotografica dura sino al 1957 mentre, parallelamente, inizia l’opera immane di catalogazione e selezione degli oltre ventimila negativi e duemila masterprints realizzati. Nel 1959 Photography Annual dedica trentasei pagine a Pittsburgh – W. Eugene Smith’s Monumental Poem to a City, la più ricca selezione mai organizzata da Smith su quel progetto. Tuttavia l’autore è ben lungi dal porre la parola fine a quest’opera e andrà avanti a comporre e scomporre la sequenza di immagini incessantemente sino alla fine dei suoi giorni. Sino al limite della follia.
Per W. Eugene Smith: Pittsburgh. Ritratto di una città industriale, la mostra in corso al MAST, il curatore Urs Stahel propone al pubblico centosettanta stampe vintage ai sali d’argento provenienti dal Carnegie Museum of Art di Pittsburgh con l’intento di spiegare il pensiero che l’autore ha cercato di trasmettere con quel reportage.
Osserviamo quelle fotografie, ripensiamo alle mostre dedicate al tema del lavoro in questi anni al MAST e la mente si riempie di una miriade di suggestioni, cui corrispondono altrettante possibili chiavi di lettura. Alcune affini al pensiero di Smith, altre profondamente distanti.
Il fumo denso che fuoriesce incessantemente dalle ciminiere e i ritratti degli operai stanchi ma sorridenti sono manifesto di produttività e progresso. Uscendo dalle fabbriche e avventurandosi per la città si percepisce un senso di benessere diffuso che, come una brezza leggera, accarezza gli ordinati quartieri residenziali, gioca con i bambini all’incrocio tra Colwell Street e Pride Street e consente alle ragazze di passeggiare la sera sole, senza timore. La sera sembra infatti l’ora del giorno prediletta da W. Eugene Smith per avventurarsi alla scoperta della città sorta nel sito in cui i fiumi Allegheny e Monongahela confluiscono nell’Ohio: una terra fertile che ha rinunciato ai ritmi lenti dell’agricoltura a favore delle industrie più all’avanguardia. Gli stabilimenti si affollano lungo le rive dei fiumi e si specchiano nell’acqua, quasi a voler moltiplicare la capacità produttiva, mentre le strade percorse da automobili e camion brillano nella notte come nastri dorati, come vene che dal cuore pulsante irradiano linfa al territorio che riposa sereno.
Il contrasto delle stampe in bianco e nero, spinto ai limiti estremi sino a trasformarsi in buio, è la chiave stilistica di W. Eugene Smith. Urs Stahel nel testo introduttivo alla mostra ama ricordare come “egli abbia lottato invano per vent’anni della sua vita per passare dalla rappresentazione al quadrato nero (come Malevič), dall’immagine alla reliquia, dall’effimero alla verità. Nella storia della fotografia nessuno mai aveva tentato questa impresa con una tale tormentosa veemenza”.
Eppure quella colata di metallo fuso che illumina l’oscurità dell’acciaieria sembra scattata nella fucina di Efesto dove i Ciclopi forgiano i fulmini di Zeus ed evoca, a cascata, il magma che fluisce nel cuore della terra, l’energia vitale e i molteplici miti sulla genesi dell’universo.
Dal buio emergono a fatica anche quei volti ieratici di operai che, in piena guerra fredda, sembrano una beffarda citazione delle campagne di propaganda sovietiche realizzate negli anni Trenta da Maestri del calibro di Max Alpert, Mark Markov-Grinberg o Aleksandr Rodčenko.
Dal 1971 al 1975 W. Eugene Smith si trasferisce in Giappone dove documenta i danni da avvelenamento da mercurio causati dal versamento nella baia di Minimata delle acque reflue delle industrie chimiche. Da quel reportage nasce la mostra Minamata: Vita—sacro e profano esposta a Tokyo nel 1973 e nel 1975 all’International Center for Photography di New York. Il fotografo che ha tessuto le lodi della città industriale per antonomasia sembra con la maturità voler indagare anche l’altra faccia della medaglia. Ma questa è un’altra storia.
Silvana Costa
La mostra continua:
MAST – Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia
via Speranza, 42 – Bologna
fino a domenica 16 settembre 2018
orari: da martedì a domenica 10–19
ingresso gratuito
www.mast.orgW. Eugene Smith: Pittsburgh
Ritratto di una città industriale
a cura di Urs Stahel
organizzata dalla Fondazione MAST
in collaborazione con Carnegie Museum of Art, Pittsburgh, Pennsylvania